Dave Grusin & Lee Ritenour Live, Forum Music Village, Roma, 26/3/2017

Gruisin

E’ stato un evento per tanti, tanti che in effetti hanno riempito una sala non grande ma accogliente per tre concerti in due giorni. Un evento per molti versi iconico, perché la fusion degli anni ’80 (collegata a quella dei ’70) ha rappresentato un fenomeno commerciale privo di successori rispetto alla qualità di quanto proposto ed ai livelli di vendita cui quella qualità ha saputo arrivare. Non ci addentriamo qui nel gigantesco filone del jazz-rock e dei suoi capolavori di quelle epoche, ma ci limitiamo a dire che, pur con evidenti discontinuità e con le discese agli inferi di certo malmesso easy listening, di quel periodo è rimasta un’eredità tuttora ovviamente godibilissima e con eredi che hanno saputo evolverne le forme ed i contenuti.

La label GRP, che vede Dave Grusin come co-fondatore, ha fatto molto per questo fenomeno, ad onor del vero nel bene e nel male perché, pur con livelli sempre elevati perlomeno sul piano tecnico e della qualità di registrazione, con quel nome è uscito anche un tot di obiettiva robetta. C’è però stato spazio per meraviglie quali la Chick Corea Elektric Band ed i singoli suoi componenti, un periodo degli Yellowjackets, Diane Schuur ed altri (avremo invece l’eleganza di omettere i punti più bassi cui si giunse). A livelli costanti e rassicuranti di qualità son sempre rimasti i lavori usciti a nome di Grusin, Ritenour o di entrambi per progetti fatti assieme che hanno costituito grandissimi successi nel genere, come ad esempio Harlequin.
Dopo tutto questo sproloquiare parliamo anche del concerto, magari, ok, però quello letto finora era un cappello necessario per capire come mai il cappello tutta quella gente sia venuta e toglierselo davanti a due maestri indiscussi di un’epoca e, nel caso di Grusin, ad un grande autore di colonne sonore, a sua volta dichiaratamente emozionato di suonare, alla tenera età di 83 anni, negli studi di registrazione che hanno avuto Ennio Morricone tra i fondatori.

Il quartetto era formato anche dal grandissimo Tom Kennedy al basso acustico ed elettrico e da Wesley Ritenour (il figlio più giovane di Captain Fingers) alla batteria. Repertorio, impostazione del gruppo ad atmosfera complessiva portano a ritenerlo più un Ritenour Quartet che un Grusin & Ritenour Quartet, anche se uno spazio è stato molto giustamente riservato al piano in solitaria per alcuni passaggi tra le soundtrack che il musicista e produttore ha composto. Nel resto del set è invece il chitarrista a costituire il sostanziale leader come esecutore e compositore, con atmosfere assolutamente non sorprendenti per chi conosca questa musica, tra funky. eleganza jazz, fusion di classe e jazz-rock certamente di ambito west-coast e certamente non nel senso euro-progressive-canterbury-e-affini che questa denominazione può portar con sé dalle nostre parti.

Ritenour e Grusin, che quando si pensa alla fusion sono ovviamente ed oggettivamente tra i grandi, non stanno in linea di massima tra i fuoriclasse assoluti, per via del fatto che le composizioni non sono tra le più inarrivabili per articolazione e che, in un mondo da mille note al secondo, loro si fermano a secentotrenta nei momenti di massimo. Fatta questa premessa -pur doverosa- per non schiacciare qualunque musica in scaffali unici, i nostri sono una coppia che, per doti individuali e per l’esperienza e l’affinità che vengono dal suonare trent’anni assieme, dal vivo hanno una musicalità meravigliosa; sono due slider del mixer che viaggiano assieme, alzandosi ed abbassandosi all’unisono senza nemmeno guardarsi, scambiandosi i ruoli con sincronismi ormai invisibili per il livello di solidità che hanno raggiunto. Grusin sta ormai più da parte e perlopiù è il collante che dà armonia e morbidezza all’insieme; Ritenour sa quando giocare e quando spingere perché ha decenni di note alle spalle e il sorriso da caposquadra che non prevarica. Kennedy è, in breve, fantastico. E’ il più virtuoso tra i quattro e si lancia a faccia serena ed allegra in clamorosi voli sullo strumento indifferente al fatto che ci sia da raccontar poesia sul contrabbasso in un assolo jazz da club o menare di slap all’elettrico come se davanti avesse la folla di un Flea; viaggia con cantabile aderenza al contesto in pratica a prescindere dal mood del brano. Eccezionale.

Wesley è un ragazzo che si farà; è molto molto bravo, ha tecnica da vendere ed al momento la utilizza anche per fuochi d’artificio non richiesti o rullanti messi un po’ fuori posto, ma la cosa è del tutto normale sia in relazione all’età sia con riferimento ad un contesto umano e professionale di musicisti rispetto al quale servono la sensibilità, la versatilità e e l’esperienza di un Vinnie Colaiuta, perché è un palco di gente che mastica musica meglio del pane ed un ragazzo anche molto talentuoso ne esce poco all’altezza anche non avendo che piccoli demeriti di gioventù.

L’intero concerto è un continuo incontrarsi di tempi veloci (più spesso) e lenti, di generi che non hanno alcun timore a starsi accanto perché chi ce li propone è ormai in quella fase che gli consente di fare buona e bella musica sapendo già che farà contento il pubblico perché è qualità che gli si chiede e nient’altro, senza il vincolo di promuovere un disco o una fase particolare di carriera o una moda che va battuta finché è calda. Qui c’è solo gente che suona in apparente totale lievità (a parte qualche tensione nel viso di un giovane che sa di dover dare il massimo con dei giganti assoluti) spaziando lungo frasi che richiedono sapienza di tocco e testa, nonché l’anima con cui poter tirar fuori un pezzo dalle atmosfere inevitabilmente già sentite (non si chiede di innovare a gente che già da giovane non ha mai fatto della sperimentazione ardita) e farlo partire con la freschezza di quel che in un concerto sembra arrivarti nuovo nuovo, pronto da gustare con curiosità. Questa è roba da grandi che solo i grandi possono restituire al pubblico dopo anni ed anni di musica -tra l’altro, ripetiamo, tutta lungo una storia che non inanella sorprese incredibili, e quindi a maggior ragione suggerirebbe allo spettatore la previsione di uno stanco revival tra vecchietti dell’hi-fi in vena di rievocazioni-. Quando non c’è chissà quale grandiosità compositiva, quando i suoni sono un piano elettrico, una Gibson, basso e batteria, quando la scaletta è più o meno nota e non c’è intenzione di arrangiamenti spiazzanti… il confine tra una serata largamente dimenticabile ed una meraviglia è tutto nelle mani di chi dà senso e valore a quella musica: se il musicista è vero e grande la differenza arriva, pulita.

Insomma: concerto straordinario? Sì, che piacciano o meno questo genere musicale, questi musicisti e questo modo di far musica. Se piace la musica questa è gente che la fa bene.