Filth in my garage “

fmygarage.jpg

Li aspettavo al varco, osservandoli immersi nel loro noise- rock ricco di influenze post-rock e post-hc.
Li aspettavo da qualche tempo, incuriosito dall’approccio sonoro in cui la parola “core” sembrava e sembra essere fulcro espressivo; non solo punto di partenza, ma anche di arrivo.

Licenziata da Argonauta Records, la band orobica giunge a noi (grazie alla neonata Sappilo Comunicare) con un ottimo full-length, offrendo un compendio ragionato della loro arte, elegantemente posta all’interno di un nero digipack, inciso da grafie inquiete ed attraenti, al servizio di una cover art che sembra racchiudere dettagli metaforici, allusivi e visionari.
Sin dal packaging, ahimé privo di booklet, il quintetto si presenta al suo pubblico, e a coloro che ricercano costantemente nuove vie lontane dalla banalità, attraverso otto tracce riuscite, poste tra concretezza e spirito emozionale.

Ad aprire il disco dei Filth in my garage è il suono diluito, desertico e distante di Stampede, brano in grado di collocare l’ascoltatore verso un mondo sognante, specchio introduttivo che funge da trampolino a Black and blue, traccia ideale per ridefinire i contorni dell’atteso. La composizione, infatti, nelle sue prime note accoglie in un surreale mondo graffiato, di certo lontano dal growling, ma non troppo discosto dal mondo nu metal, qui avvicinato con decisione a quella tipica energia dell’hardcore post punk.

Gli spazi espressivi dell’LP si vitalizzano con rinnovata decisione attraverso la struttura di Greenwitch, grazie alla quale ci si trova imprigionati in una sorta di ambientazione Steampunk, in cui le polveri si mescolano a meccanismi oliati, pronti a evolvere su strutture non lontane dal post-punk. Suoni diluiti che afferrano l’astante alla gola per soffocarlo con nodi sonori magici e claustrofobici.

Il brano, di certo tra i più interessanti del disco, si pone come ponte continuativo verso le nereggianti note di Awful path, in cui torna la linea vocale di Stefano, sostenuto dalle pensanti sei corde, ideali nel loro virare verso una ritmica decadente ed oscura, ricca di rimandi nu in stile anni ‘90.

L’album prosegue verso le impostazioni osservativa di Red Door, che ancora una volta porge lo sguardo verso un mondo alternativo, qui deliziosamente sporcato da pennate in battere e distorsioni impolverate. La composizione, che ospita Alessandro Andriolo alle back voice, restituisce spigoli espressivi, calmierati da un mood rotondo e avvolgente, in cui la sofferta linea vocale trova il suo habitat naturale prima di esplodere in un riuscito climax creativo. Lo stile vocale, spinto verso un composto ed emozionale stile hc, non lascia spazio alla stasi, proprio come dimostra la chiusura schizofrenica del brano, in grado di attraversare cambi agogici fuorvianti e destabilizzanti. L’impronta descrittiva, posta al cospetto di questa misteriosa e metaforica porta rossa, passa infine attraverso la meno riuscita The Lowest floor che, soprattutto nel suo incipit, disegna venature ordinarie nonostante l’istericizzazione del cantato.

A donare nuova profondità creativa è invece Owl feather, ottimale atto di chiusura, in cui una evocativa overture riesce a catapultarsi nel fantastico mondo di Stefano Bonora, posto tra i noise di Daniele Tagliaferri e le impronte pulite della sezione ritma, che favoriscono l’avvezzo ascoltatore, fornendo lui un sentiero per comprendere i valori espressivi di un brano ideale per freschezza, velato doom e approccio inquieto.

Un disco quindi che sento di dover consigliare per la ragionata capacità di accompagnare l’uditore verso un mondo visionario e ricco di ostacoli.

Tracklist

01) Stampede
02) Black and Blue
03) Devil’s Shape
04) Greenwich
05) Awful Path
06) Red Door
07) The Lowest Floor
08) Owl Feather