Giovanni Allevi – No Concept. Recensione e intervista Giovanni Allevi.

Allevi Giovanni - No concept cd cover.

Giovanni Allevi è un pianista coetaneo di chi scrive, già recensito su queste pagine per il suo primo lavoro 13 dita, giunto ora al terzo CD, No concept, con distribuzione BMG, il che potrebbe dargli il successo “commerciale” -brutta da dire, ma…- che merita. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per parlare del disco. e di lui.

Volendo trovare una definizione che ti somigli, i primi ascolti di questo lavoro mi fanno pensare a Michael Nyman che diventa ottimista.

Ti ringrazio, perché Nyman suona benissimo (ci tiene a “correggermi il tiro” con molta eleganza sottolinenado le qualità di Nyman quando mi sente aggiungere qualche presa in giro sulla ripetitività del suddetto, ndr) e soprattutto per aver parlato di ottimismo. La mia musica è ottimista, la sento così.

Hai altro a che spartire con “quel” genere musicale?

Sicuramente il minimalismo USA ha dato molto alla musica attuale. Penso ad artisti come Steve Reich, che hanno avuto un forte impatto innovativo. Personalmente credo di non aver attinto molte influenze da lì. Semmai qualcosa può legarmi a certa new age, ma comunque mi sento lontano da questi rimandi e voglio mantenere una distanza dalle correnti. Piuttosto propongo: torniamo a parlare di tradizione italiana ed europea, di un pensiero italiano ed europeo, di un riferirsi a questa cultura non cedendo alle “contaminazioni”, ma tornando alla melodia, senza che sia né reiterata né dodecafonica. Sento un nuovo rinascimento italiano, che non copia la tradizione ma considera le radici di questa cultura.

E’ almeno in parte quel che si avverte nel disco, un lavoro “senza genere”. che tipo di ascoltatore immagini davanti ai diffusori ad ascoltarti?

Sinceramente immagino persone che, in qualche modo, siano dei sognatori. Persone con una forte predisposizione alla poesia, alla creatività. Io le faccio “entrare nel mio mondo”, ma poi immagino che siano loro a completare la mia musica col loro vissuto. No concept è strutturato un po’ così, con una prima parte che vuole essere in un certo senso introduttiva al mio modo di sentire e che si fa via via più intima, invitando sempre più chi ascolta a fare il suo percorso.

Ho tentato di collocare in qualche denominazione musicale il tuo lavoro: sinceramente l’unica cosa che sono riuscito a fare è togliere il jazz dalle possibili “caselle di appartenenza”.

In effetti sento, da sempre, che il jazz non mi appartiene, perlomeno per ciò che riguarda uno dei suoi aspetti essenziali, l’improvvisazione. Non condivido il senso di indefinito di ogni esecuzione. Ho amici musicisti che amano il jazz, invece, esattamente per questo motivo, cioè proprio per l’unicità di ogni concerto, di ogni interpretazione. Io non sono così, eppure il jazz ha per certi versi aperto la porta al mio modo di comporre, alla mia evoluzione compositiva: è con l’improvvisazione che, da un’idea, scelgo tra mille diverse strade. ne scelgo una, e la tengo, non la cambio.

Il tuo percorso “senza generi” ti ha portato a contatto con tipi di pubblico molto diversi tra loro quello della classica, come pure il Blue Note di New York o addirittura le folle dei concerti di Jovanotti, che in più occasioni hai aperto tu in solitudine col piano. Come cambia il rapporto con chi ti ascolta?

Sai, in realtà io. non vado incontro al pubblico. Non ho alcuna ostilità, ovviamente, ma ho un rapporto molto privato col pianoforte. Mi siedo e sono con lui. Questo è assolutamente il passo fondamentale per me al fine di poter suonare come voglio. Poi c’è il pubblico davanti a me, e la cosa funziona quando il pubblico manifesta rispetto per questo mio momento. Con il pubblico di Jovanotti la cosa poteva essere più critica, ma. hanno capito, hanno avuto rispetto per un pazzo che stava lì da solo col suo pianoforte, per uno che ce la stava mettendo tutta.

La registrazione sembra dare ulteriore corpo a questo tuo intimo contatto col pianoforte; la ripresa è molto vera, molto autentica, priva di effettistica. Immagino che abbiate voluto esattamente ottenere questo.

Sì, è precisamente così. La sensazione che abbiamo cercato di ottenere è stata quella di un ascolto “con la testa nel pianoforte”.

Persino il pedale è molto “vicino”, avvertibile con un realismo particolare.

Sì, abbiamo microfonato anche il pedale. Tieni presente il fatto che microfonare il pianoforte è stato un lavoro di un giorno e mezzo, lavoro a cui si è arrivati dopo la scelta del microfono più adatto che ci ha portati a trovarne uno arrivato dalla California, a nastro, rarissimo. Abbiamo utilizzato solo la riverberazione naturale della sala di incisione, senza aggiungere altro, prestando molta cura ad un posizionamento microfonico che esaltasse il Bösendorfer Imperial con cui il disco è stato registrato (Giovanni è uno degli artisti Bösendorfer e ha registrato il disco con uno dei nove Imperial presenti in Europa, ndr). E’ un pianoforte che restituisce un suono estremamente ricco ed articolato, il che porta a dover “gestire” questa potenza in fase di registrazione. L’ultimo brano del CD, Breath (a meditation) è proprio un omaggio a questo pianoforte straordinario.

Spiacente ma ti tocca anche questa domanda: progetti per il futuro? E comunque pensi anche a qualcosa che non sia Giovanni Allevi al piano in solitudine?

Intanto vado un po’ via dalla solitudine e a Palermo eseguo per la prima volta la mia composizione Foglie di Beslan con l’orchestra; quest’estate sarò in Cina, in autunno torno negli USA. In ogni caso ho già delle idee che riguardano anche esecuzioni con altri strumenti. Il pianoforte in solitudine offre molto, ma mi interessa anche comporre pensando già allo strumento che potrà eseguire la melodia che ho in mente, mi interessa ripetere una linea variandola su più strumenti. ripetere due volte una melodia col piano potrebbe già annoiare; affidarla ad un nuovo timbro aggiunge qualcosa.

Ormai tra USA e Milano mi sa che non torni spesso “in” Ascoli (usare “in” in luogo di “a” fa molto… ascolano: chiedete al direttore di Music on TNT! ndr).

Milano è in effetti importantissima per il mio lavoro, non solo per la parte di promozione e commerciale, ma proprio per gli incontri culturali ed artistici che sono possibili in quella città. Ascoli però per me è fondamentale per comporre, ha la tranquillità che mi consente di trovare nuove idee.
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Giovanni Allevi ha determinazione e simpatia, sa essere gentile senza preoccuparsi di far contenti tutti con le sue parole. Gli auguro di percorrere una strada in cui il suo talento trovi lo spazio che merita. Ecco la mia opinione sul CD No concept:

L’avvio ha il potere di lasciare un ricordo molto forte del disco in chi ascolta, anche spegnendo dopo mezzo minuto. Melodia ed armonia estremamente ariose e fresche mi portano, personalmente, in un mondo che ho attraversato con alcune cose di George Winston (il quale però, tanto per chiarire, di Allevi non ha assolutamente la tecnica né il tocco). Atmosfere in qualche modo care a chi ama la new age tornano anche dal secondo brano in poi, ma si avverte con chiarezza quanto Giovanni sia raffinato nel proporci questi viaggi. Il tocco sa farsi levigato o incisivo senza però perdere mai di nitidezza, il che si traduce in un’esperienza di ascolto che lascia tutto lo spazio possibile per comprendere il messaggio musicale, per lasciarlo entrare dentro i propri pensieri e trasformarlo.

Una sensazione molto molto positiva che vi racconto da recensore ma che ho vissuto da ascoltatore è quella di una musica capace di grandi aperture evocative senza che coesistano altre due cosette solitamente presenti assieme alla prima: evidenti riferimenti stilistici a questo o quell’artista, da un lato, e l’uso di effetti “ruffiani” che riempiono l’atmosfera con colori suggestivi ma artificiosi, il che rappresenta uno dei metodi con cui viene spesso rifilato un “pacco” musicale contenente pochezza. Qui invece la registrazione, davvero notevole, avvicina allo strumento e quindi all’essenza dell’idea musicale che sostiene ogni momento, con un suono definito e molto ricco, capace di far percepire anche ai meno “tecniconi” la straordinaria bellezza di uno strumento acustico. La scelta di una ripresa così “diretta” scarnifica le note dagli orpelli che troppo spesso le circondano e ce le restituisce estremamente vicine a come volevano essere in origine. La cosa, non dimentichiamolo, richiede che alla base ci sia qualcuno capace di suonare davvero bene, proprio perché l’essenzialità rivela molto di più e con grande sincerità, in questo e molti altri aspetti della vita. ma questa è un’altra faccenda. J

Sì, ma a chi somiglia? Che musica fa? Lo so, lo so, c’è di sicuro qualcuno di voi che vorrebbe degli indizi maggiormente riconoscibili per capire se questo disco gli piacerà o no. beh, è complicato mettervi una definizione sul piatto. Diciamo che alcuni passaggi hanno un tratto nel disegnare paesaggi che a me fa sentire qualcosa di Debussy. diciamo pure che di Winston vi ho già parlato. diciamo che la preparazione classica è evidente ma diciamo anche che la permanenza a New York colora di un blues divertito alcuni momenti del disco. sì, diciamo pure che quando queste influenze blues rallentano di metronomo si può avvertire qualcosa che piacerà a chi ama Jarrett. ma sono coloriture che vi scrivo giusto per farvi capire dove più o meno ci troviamo. In realtà questo disco secondo me va ascoltato, per intero, in solitudine e senza pensare agli agganci possibili. Non voglio lanciare inutili e dannosi proclami, ma è molto raro trovarsi di fronte a un disco che lascia spazio per pensare, anche semplice ma per nulla banale, ottimamente suonato e registrato.