Korn+ Public Enemy. LIve. Firenze Rock. 12-06-25
Premessa.
Chi si imbatterà nel mio articolo, osservando bene la date, potrebbe pensare: “Ma come? Una recensione ad oltre un mese dopo l’evento?”. La risposta sintetica è tanto semplice quanto provocatoria: sì.
Il perché lo spiego subito.
Viviamo in un mondo che va di fretta; il tutto e il subito è ormai una legge non scritta, che alimenta gli algoritmi, reale schiavitù moderna. La corsa alla notizia è, fondamentalmente un’angosciante realtà. Sui social, anticipare gli altri sembra una rincorsa obbligata per portare like o clickbait.
Ma la fretta non è sempre una buona compagna di viaggio. Così, spinto dalla volontà di uscire dal meccanismo costringente, ho voluto sperimentare la calma per vedere se i numeri cambiano in maniera significativa.
Il live
Torna il Firenze Rock e anche quest’anno la Visarno Arena si è popolata per tre grandi eventi; noi ve ne raccontiamo uno, quello del 13 giugno, serata in cui Korn e Public Enemy hanno narrato la loro storia di fronte ad un pubblico, come da tradizione, piuttosto numeroso, ma definito da cifre più contenute rispetto al passato. Infatti si parla di circa 110.000 presenze sommate sui tre giorni.
A dare battesimo alla seconda giornata del festival sono state due bande nostrane Loccasione e Atwood (di cui non vi parlerò… perché il traffico veicolare non è stato con me clemente… non sono arrivato in tempo).
Arrivo proprio quando il palco viene conquistato dai Soft Play, però, mi rendo conto che la voce granulare e spigolosa di Isaac Holman meriterebbe più presenze. Il sound impattante del duo ci rimanda all’Inghilterra Punk Hardcore, pronta ad implodere sul mood di Punk’s dead e Mirror Muscles che si affiancano ai sentori SOAD di Act Violenty e alle ossessive toniche di Hunter.
Piano piano vedo il sottopalco che inizia a popolarsi tra il caldo importante e le polveri che cominciano a sbiancare le scarpe. Mi guardo attorno e vedo, come di consueto, una trasversalità eterogenea. Ragazzine goth al fianco di attempati signori che hanno vissuto gli anni Ottanta, famiglie, lupi solitari e insospettabili e distinti presenti, pronti a modificare il proprio rispettabile quotidiano, indossando la maglietta dei Korn, di Marilyn Manson o degli Slayer. Qualcuno si lamenta (giustamente) dei token, altri del sole a picco, altri ancora della severità ai punti di controllo.
Tutto, però, svanisce nel momento in cui ci si rende conto di essere ad uno dei festival più importanti in Italia. Non c’è molto tempo per annoiarsi e non c’è tempo per polemizzare, perché sul palco arriva la follia degli Enter Shikari band dedita ad un electro-core in grado di spaziare dall’HC alla sperimentazione. Sospinte da un sound poliedrico, destabilizzante e coraggioso, le sonorità paiono sorrette da un mood che cambia, viaggia, parte e ritorna, pronto ad attraversare stilemi differenti e variegati.
Il live, pur d’impatto inferiore al mondo proposto dai Soft Play, appare di ottima fattura, presentando una band in grado di incuriosire e trainare i presenti, grazie alla performance di Rou Raynolds, un frontman atipico. Un leader in grado di definire un ossimoro visivo (outfit proto-alternative contro l’attitudine rocker) armato di una set list in cui gli apici espressivi paiono Juggernaut e A kiss for the whole world.
Il Sole inizia a dare tregua quando finalmente i Public Enemy arrivano sul palco, e dico finalmente perché, se non erro, mancano dall’Italia da circa 20 anni.
L’emozione di aver di fronte la mitologia del rap è palpabile. Tantissimi tra gli spettatori indossano il celebre logo della band che ha scritto l’inizio di un movimento senza il quale, chi popola le nostre tristi charts non esisterebbe… quindi possiamo dire che la disgrazia di dover subire la Trap oggi è colpa di Chuck D? Può essere, ma temo che molti artisti contemporanei non sappiano neppure chi siano i Public Enemy.
Il live, definito da una setlist attesa e confermata, ha visto un ensemble in forma smagliante. Flavour Flav ciarliero come di consueto, ha stupito chiunque, saltando, sudando, correndo in lungo e largo per il palco e anche oltre; infatti proprio durante il live, io stesso mi sono sentito spingere a tradimento. Da chi? Proprio da Mr. Flavor, sceso sul Pit pronto ad attraversare la folla di corsa, accompagnato dai due fidi soldati in mimetica.
La scaletta, tanto per citare Lorenzo Cherubini, illumina le menti dei fan e dei curiosi attraverso un’immutata vocalità di Chuck D, che ci invita a percorrere la storia della band partendo da Shut’em down, un gentile omaggio a Brian Wilson con Good Vibration e Can truss it.
Mentre sul mega schermo sopra le quinte si alternano immagini legate all’essenza della band, la setlist ci riporta dentro a Fear of the Black Planet (Welcome to the terrordrome), a mio avviso ancora considerabile uno tra i migliori full lenght della band.
Se poi la versione live di He got game non sembra funzionare al meglio, l’apice sonoro viene raggiunto con due vere e proprie pallottole musicali: Don’t believe the hype e Bring the Noise, piacevolmente spigolosa e trainante.



La mia mente, proprio sul finire del live, si perde nei pensieri; realizzo chi ho di fronte e mi distraggo pensando alla forza iconica e radicata che ancora oggi racconta il disagio, le lotte sociali e l’equità attraverso barre granulari, in cui il messaggio tocca i pensieri dei pensanti. Il mio perdurante stato di trance viene poi interrotto da Public Enemy NO°1, appena in tempo per il finale gratificante, durante il quale l’urlo del sottopalco ricorda la necessità vitale di “combattere il potere”, i soprusi e quel razzismo latente di un mondo ancora cieco ed elitario.
Il live termina. Mi soffermo ad osservare il contorno e, come un agente della Stasi, ascolto i dialoghi e le impressioni dei ragazzi più giovani. Qualcuno dice soddisfatto “Oh! Ma questi spaccano”, mentre un altro risponde con arroganza: “Io li conosco, vai ad ascoltarti Indians e poi ne riparliamo”.
Sul palco DJ Ringo, Toki e Virgin Radio, storico partner di Firenze Rock, allietano il pubblico con accorti dj set, proprio mentre la scena viene ridisegnata con alte torri led e un drappo nero dietro il quale, sul finire dell’imbrunire appare Jonathan Davis, accompagnato da una delirante acclamazione. Di nero vestito, il frontman di una delle più influenti band Nu Metal sembra essere quello di inizio secolo. Il look, fedele agli esordi, con kilt and long-hair paiono immediatamente pronti a trascinare un moshpit, mediante le note di Blind, magnifico anthem senza tempo. Le luci e gli effetti visivi si annodano poi sulla follia compositiva di Twist prima e Here to stay dopo.


Il concerto, sin da subito sembra restituire una band in piena forma, pronta a scardinare la tranquillità, attraverso cornamuse, toniche profonde e il feroce trittico Cold, A.D.I.D.A.S. e Dirty, mentre lo slap di Fieldy porta gli astanti verso un finale definito da Divine e Freak on a leash, lasciandoci con un unico rammarico: non aver visto sul palco una collaborazione tra Korn e Public Enemy, che ingenuamente speravo concretizzarsi.
Le luci si riaccendono e tutto è finito; ci rimarranno negli occhi le immagini e i ricordi di un live magnifico e nei polmoni la polvere del pogo.