Mika – The Boy Who Knew Too Much. recensione

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L’evoluzione di un cantante segue percorsi strani. Nella maggior parte dei casi ci si ritroverebbe di fronte ad un cambio non solo di stile, ma anche di genere a seconda di quelle che diventano, in seguito, le esigenze del cantante. E’ risaputo che questo passaggio sia inevitabile e l’abbiamo visto più volte ultimamente. Nella carriera di un artista questo serve principalmente per non incombere nella monotonia e non lasciare i propri fan, un domani, delusi per il fatto di “regalare” sempre le stesse canzoni. Tale passaggio può richiedere molti anni come la distanza di un solo album che rivoluziona per sempre la figura in questione. Comunque, quando il cambiamento non sussiste, vuol dire che c’è qualcos’altro: delle idee non usate, dei pensieri non detti, delle esperienze non raccontate a sufficienza nel lavoro precedente, ecc. In questo modo si crea un ponte tra i due album che generano questo tipo di sapere ed il risultato è quello di avere, finalmente, un ‘opera completa che dia i risultati sperati. E’ il caso di “The Boy Who Knew Too Much”: secondo album dell’eccezionale Mika.

Molto riconoscibile per l’uso del falsetto e per la somiglianza timbrica con Freddie Mercury, Mika ah conosciuto le luci della ribalta nel 2006 grazie al suo singolo “Grace Kelly” che fece conoscere al mondo la bellezza della sua voce, nonché la sua spontaneità nell’essere un grande “raccoglitore di masse”. L’allegria, i colori sgargianti, la pazzia in senso non negativo: queste sono le caratteristiche che hanno permesso a Mika di essere amato dai fans e dalle case discografiche con le quali non ha mai avuto un bel rapporto. Il suo studio musicale parte fin da piccolo, insieme alla madre, tra i 16 e 19 anni: il periodo che Mika ricorda con molto entusiasmo ed è proprio di questo che parla il nuovo album “The Boy Who Knew Too Much”, un lavoro frizzante che non si distacca tanto dal precedente, proprio perché tratta di argomenti molto delicati per l’artista libanese che, crede, sia il caso di raccontarli ancora finchè non avrà esaurito la sua vena creativa al riguardo.

La storia di Mika inizia proprio a scuola nel momento in cui i genitori (a causa della guerra nel loro paese) decisero di migrare a Parigi. Il piccolo non riesce, però, a integrarsi con gli altri compagni e così vive male la sua giovinezza (soprattutto anche per il fatto che è dislessico) chiudendosi in se stesso. La madre decide di aiutarlo portandolo lontano dalla scuola e mettendolo a studiare pianoforte e canto. Il contatto con la musica permetterà a Mika di entrare al Royal College di Londra dove inizierà a scrivere canzoni che non diventeranno famose finchè, grazie all’ausilio del MySpace, un produttore on deciderà di produrlo.

The Boy Who Knew Too Much” (un titolo molto suggestivo riferendoci proprio agli episodi precedentemente narrati) è un ulteriore resoconto di quel periodo di stallo tra l’infanzia e la maturità, già ampiamente spiegato in “Life In Cartoon Motion”, ma che si dimostra come un lavoro non diverso di stile, ma che mette in evidenza un Mika più maturo nell’utilizzo della sua voce con dei toni, in molti casi, abbastanza cupi (“Rain”) o molto ironici (“Blame It On The Girls”), cosa non tanto facile da distinguere nel precedente album. Sussistono pezzi che lasciano intravedere una probabile direzione del cantante verso uno stile nuovo (“Good Gone Girl”) proprio perché, oltre a quello che già conosciamo ci vengono presentate delle nuove tecniche sperimentate che, in non pochi casi, si riuniscono anche nell’uso di una strumentazione prettamente acustica (“Blue Eyes”). Sbagliata, ma non tanto, la scelta del primo singolo: “We Are Golden” che mostra l’essenza della persona che Mika rappresenta, ma che mostra ai fans, invece, che nulla a distanza di qualche anno non è cambiato nulla. Questo poteva essere uno svantaggio per il cantante, ma anche un vantaggio poiché molti suoi colleghi per mostrarsi ai fans dopo qualche tempo decidono di mettere delle canzoni che li mostrino cambiati, ma è un’illusione visto che poi, l’intero album, si presenta come una “seconda parte” di quello che, invece, rappresentava. Mika è andato dritto al punto. Il cantante, poi, sembra essere in grado ormai di saper gestire il falsetto, per il semplice fatto che lo usa come meglio può in non poche occasioni strumentalizzandolo come la tecnica base del suo stile che mostra le grandi dote canore di questo giovane talento.

L’album “The Boy Who Knew Too Much” non è da scartare: è un’ora di allegria nella monotonia della vita. Da avere per chi si deprime con facilità.