Moscaburro “Bread-and-Butter-Flies”, recensione

moscaburro.jpg

Come già qualche volta mi è capitato di affermare, un disco inizia a suonare ben prima di essere ascoltato. Infatti, osservando la cover art, la delicatezza artistica di font o ancora il packaging inusuale, si possono capire molti elementi di cura/non cura; infatti proprio un dettaglio artistico o progettuale può (presumibilmente) rispecchiare molti aspetti nascosti delle partiture e del cosiddetto songwriting.

Pur non potendo accogliere tout court l’assioma della concettualità dell’abito monacale, spesso ( se non quasi sempre) si può dire che ad un estetismo curato coincide un’accurata propensione a definire ogni singolo livello espressivo.

Dediti a questa rappresentazione di strutturazione multi livello troviamo i Moscaburro che, (concedetemelo) nonostante un monicker poco esotico, ci donano la delicatezza dell’indie, mescolata a strutture alternative folk e a tenui velature acustiche, ben allineate ad arrangiamenti rettilinei ed intimisti.

Il disco, registrato presso il Red House Recordings, racchiude la genesi di una band a tratti onirica e nuvolare, proprio come l’incantevole scelta stilistica di Mauro Merlino, che con i suoi tratti visionari riesce ad invitare l’ascoltatore all’interno di un mondo surreale. Non a caso, proprio il titolo dell’album Bread-and-butter-flies, tratto dalla narrazione di Caroll, sembra voler dare un riferimento fiabesco ed incantato alle dieci tracce del platter.

Non ci sono molti dubbi nel definire questo album, co-prodotto dal Dipartimento Culturale Italiano della Provincia Autonoma di Bolzano, come un opera essenziale per chi l’indie-pop conosce e per chi all’indie-pop anela. Vi basterà ascoltare l’opener di quest’opera per fugare ogni dubbio. Le funzionali e riuscite note acustiche di Ticket for your love offrono in maniera ponderata un delicato dialogo tra suoni, attraverso un tempo acustico accorto, che nei suoi tratti in levare funge da pattern alla voce pulita e caratterizzata di Simone Gelmini, focus armonico essenziale nel suo alternarsi alle femminee alte vocalità di Arianna Merlino e Michela Campaner. La sensazione accogliente e canicolare, che deriva da un indie folk atto ad inglobare gli aspetti tipici d’oltreoceano, si unisce alla sensibilità descrittiva dell’alternative nordico. A queste sensazioni emotive si aggiungono l’attenzione verso una derivata tipologia autoriale degli anni ’60 e venature bossa nova (Wandering(Lonely as a cloud )), che ci rimandano al mondo dei Nouvelle Vague.

Il viaggio tra gli spartiti ci invita nei sognanti passaggi di A sonnet , atto melodico in grado di definire un’apertura verso l’ermetismo di Scattered Traces, in cui l’arte di Marlis Steinegger dona vitalità ed emozione intensa. Sono di fatto le abili corde dell’arpa a evidenziare passaggi strutturali che toccano l’apice attraverso brani come Eveline, in cui gli archi di Ayumi Tovazzi e Giordano Poloni aumentano il pathos narrativo.
Il quintetto mostra poi un’attesa aria King of convenience mediate Wien, mostrando poi la propria arte cantautorale attraverso episodi incantevoli come Scent, manifestazione di una crescente tecnica espositiva, pronta a palesarsi sulla perfezione di Spinning Jenny che, volente o nolente, riporta alla mente l Halleluja di Jeff Buckley.

Giungiamo così al termine di un disco delizioso, le cui tracce altro non sono che registiche inquadrature di un prezioso film indipendente