My morning jacket – Evil urges

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I “My morning jacket” si sono fatti conoscere al grande pubblico come gruppo di apertura dei concerti dei Pearl Jam e hanno dimostrato decisamente di saperci fare, in studio e dal vivo, proponendo una fusione di rock sudista, country, indie-rock, prog e quant’altro, ben rappresentata nel doppio live “Okonokos”, energico e tecnicamente ben suonato.

“Evil urges” esce nel 2008, a distanza di tre anni dall’ultimo lavoro in studio e, lo dico subito, fin dal primo ascolto ha trasformato la mia curiosità in assoluto sconcerto.
L’impronta pop di alcuni brani, l’esagerato uso del falsetto, la sensazione che il pescare a piene mani da vari stili della tradizione rock statunitense stavolta non ha saputo produrre la fusione e la rielaborazione di vari stili, ma solamente la loro semplice citazione, danno l’impressione di un lavoro discontinuo, privo di vere idee, frammentario e auto celebrativo. Il risultato dà l’idea dell’ascolto di un disco di cover, privo di una qualsiasi spinta in avanti.

Si comincia con “Evil urges”, con batteria e basso che lavorano a creare un ritmo incalzante ed un innesto di voce in falsetto. Aspettiamo il decollo del brano, che non arriva, e restiamo ben piantati in atmosfere pop, mentre il secondo brano “Touch me I’m going to scream pt.1” scende un gradino sotto, conservando le stesse atmosfere ma aggiungendovi una buona dose di monotonia.
Si arriva a “Highly suspicious”: tremendo falsettone alla Prince e poi vocione nei ritornelli, per un brano ossessivo e buono per una serata da sballo in discoteca. Tutto sommato simpatico, se l’intenzione fosse ironica.

L’incisione è buona, ma non ho nessuna voglia di riascoltare ciò che ho sentito fino ad ora…
“I’m amazed” lo potremmo definire un brano di rock sudista commerciale, con chitarra, voce e cori al posto giusto, un brano per scaldare un po’ mani e corde vocali degli esecutori: nella sua assenza di ispirazione rappresenta un esercizio di stile e niente più, piacevole fondamentalmente perché le prime tre tracce del CD sono davvero bruttine.
Il brano successivo, “Thank you too”, è imbarazzante, melenso e ripetitivo. Sembra quasi che un barattolo di melassa sia stato versato nella gola di un cantante che rifà il verso ad una sdolcinata cover band degli Eagles. Dopo due minuti di ascolto è davvero difficile resistere alla tentazione di saltare alla traccia successiva.
Dalla padella nella brace… ci piomba addosso “Sec walking”, ballatona country piena di chitarre slide e cori in falsetto, che potrebbe appartenere tranquillamente al repertorio di Willie Nelson and Co.: un brano come ce ne sono forse decine di migliaia, nella tradizione country americana.

A metà album mi sto chiedendo se sto buttando il mio tempo, e puntualmente arriva la conferma con “Two halves”, piena di atmosfere anni sessanta e cori alla Beach Boys, e con “Librarian”, grazie alla quale dopo una dozzina di battute siamo davvero belli stufi della stessa strofa ripetuta all’infinito, con il brano che diventa di una noia mortale, inutilmente sostenuto da continui innesti di voci e strumenti.
Nonostante tutto continuo imperterrito ad ascoltare…

La lenta “Look at you”, che ci fa riprendere a respirare atmosfere sudiste con in sottofondo le solite chitarre slide, scorre piacevolmente. Non riesco ad andare oltre al “piacevolmente”, e mi sembra già un fatto positivo che trova conferma nella successiva “Aluminum Park”, costruita su un riff di chitarra rugginosa ripetuto all’infinito, che non inventa nulla ma almeno non ci fa venir voglia di premere il tasto di avanzamento rapido.

Si prosegue quindi con “Remnants“, brano tirato fatto apposta per far saltare i fans sotto al palco della band nei concerti dal vivo e “Smokin’ from shooting”, che ci porta in un mondo a metà fra il peggior Elton John e Gilbert O’Sullivan, per chi se lo ricorda ancora, a parte la solita batteria che spezza il ritmo.
“Touch me I’m going to scream pt.2” è un brano inqualificabile, che dopo un’intro strumentale si schianta fragorosamente nel pieno degli anni ‘80, rifacendo il verso all’Electric Light Orchestra, depurata dagli archi, e alla dance music di quegli anni, in generale così deprimenti per gli amanti del rock.
Onestamente dopo questa mazzata finale faccio davvero un po’ fatica a riprendermi…
L’ultimo brano, “Good intentions” (sembra più un auspicio che una realtà, per questo lavoro) chiude il CD con “due secondi due” di rumore.

Finisco l’ascolto desolatamente confuso, con l’impressione di avere ingurgitato un pastone indigesto, e ripongo il CD, prestatomi da un amico, senza troppi rimpianti.
Non acquisterò questo CD (credo si sia capito…) e colgo l’occasione per chiedere cortesemente ai miei amici di non regalarmelo.

P.S. Ho avuto la forza di riascoltare, nei giorni successivi, altre due volte il CD. Sono pienamente convinto che non ci sarà una quarta volta.