PJ Harvey recensione dell’album White Chalk.

PJ Harvey - White chalk cd cover

Devo ammetterlo, il primo ascolto di White Chalk mi ha spiazzata. Non solo perché l’incipit del brano di apertura riporta la mia memoria distorta a quello della sigla di “Casa Vianello”, ma soprattutto (e questo è molto più attendibile) perché l’album costituisce una svolta inaspettata nel percorso artistico di PJ Harvey.

Chiunque conosca anche solo vagamente la discografia di Polly Jean sa bene cosa aspettarsi da una canzone intitolata “The Devil”: distorsioni, voce graffiante, melodia impetuosa. In questo caso, nulla di più distante dalla realtà, nella quale la chitarra è sostituita da un pianoforte che realizza un susseguirsi di accordi in ritmo ostinato, solida struttura sonora per le parti vocali. Ad esse è affidata la melodia, resa straordinariamente intensa da un utilizzo del tutto rinnovato della voce. Al posto del timbro ruvido e a tratti perfino grezzo dei precedenti album troviamo qui un suono vellutato, dolce e suadente che fa sfoggio di un’ineccepibile padronanza tecnica e guadagna, se possibile, in intensità ed espressività. Insomma, PJ Harvey si discosta dall’etichetta di “erede di Patty Smith” per avvicinarsi ad una sonorità molto più simile a quella di Cat Power.

Il tempo di riprendersi dalla sorpresa e già ci si ritrova avvolti dalla forza espressiva di “Dear Darkness”, forse il momento più alto di questo intimistico album. Come del resto in tutte le canzoni, la melodia è introdotta da semplici accordi al pianoforte per poi passare alla voce, abbassata quasi ad un sussurro. Ma dopo poche battute è di nuovo lo strumento ad essere in primo piano e a guidare la voce. Questo scambio procede per tutta la durata del brano mettendo in luce un’armonia tale tra le due parti in gioco da dare l’impressione che tanto il piano quanto la voce siano prolungamenti naturali dell’animo dell’artista.

I toni si fanno sempre più cupi ed aumenta l’uso di voce e strumenti per sottolineare l’intensità. In “Grow grow grow” la ripetizione del termine è sottolineata dalla presenza di arpa e violini in crescendo mentre il piano si fa sentire con accordi incalzanti. Questo espediente è ripreso con straordinaria efficacia nel brano “The Piano” in concomitanza coi punti più salienti del testo: ecco che gli strumenti rendono percepibile l’ansia della protagonista, la sua disperata attesa di un intervento delle persone a lei più vicine “Daddy’s in the corner, rattling his keys, mommy’s in the doorway, trying to leave”, per poi rilasciarsi nella delusione e nella presa di coscienza che “Nobody is listening”.

Oltre ai brani appena citati, ve ne sono altri più vicini alla tradizione della cantante, quantomeno dal punto di vista melodico, come “When Under Ether” e “To Talk To You” , che richiamano i pezzi più dimessi come “This Mess We’re In” dell’album “Stories From The Cities, Stories From The Sea” , e la bellissima Broken Harp, con un breve ritornello eseguito in coro (si tratta in realtà sempre della voce di PJ Harvey) a cappella che sottolinea la sofferenza nella richiesta “Can You Forgive Me?”.
“White Chalk”, che dà titolo all’album è forse la canzone meno toccante, anche se interessante dal punto di vista degli effetti applicati alla voce.

Le innovazioni comunque non finiscono qui. Anche i testi si distanziano dai precedenti, soprattutto per l’assenza di rabbia e aggressività e per lo sguardo fortemente intimistico. In particolare, essi prendono le distanze dal precendente album, “Uh Uh Her”, che nonostante la presenza di canzoni “arrabbiate” delineava un quadro generale positivo di una Polly Jean innamorata e, nel complesso, felice già anticipato in “Stories From The Cities, Stories From The Sea”. Non c’è più traccia ora di quella felicità. Al suo posto solitudine e dolore. Tutti i brani ruotano intorno al tema dell’abbandono e della richiesta di aiuto, tristemente mai soddisfatta. Emblematico a tal proposito il testo di “Before Departure” , vera poesia.

Nel complesso “White Chalk” raggiunge livelli di maturità artistica ed espressione maggiori rispetto a quelli degli album precedenti, superando ogni aspettativa. A questo punto nasce spontaneo l’interrogativo sulla direzione artistica futura di PJ Harvey. Certamente, purtroppo per lei, i tempi di “Bad Fortune” appaiono attualmente molto lontani.