Rattle that lock

Rattle that lock

Ed eccoci qui, con un nuovo lavoro solista per la leggenda vivente David Gilmour.

Le introduzioni sono qui sostanzialmente inutili, c’è poco da fare. Mente libera e via con l’ascolto. Ho deciso di raccontarvi l’album brano per brano, perché in questo caso secondo me riesco meglio a farvi capire com’è andato l’ascolto e come sono arrivato alle conclusioni.

Si parte con 5 A. M., un’intro bucolica ma parecchio banale, di quelle che dopo tre note ti hanno detto già anche le successive. bei suoni ma null’altro che il tocco tipico della casa.

La title track mantiene coerenza con la scelta di non brillare per originalità, ma ha un buon tiro e come popsong eighties d’alto bordo ci sta tutta, basso furbo e synth giusti. Farebbe la sua figura come bonus inedito nella nuova versione di Avalon (Phil Manzanera, scopro poi con malcelato orgoglio, sta ai bottoni per la produzione di questo lavoro), ma più probabilmente la prenderebbero subito i Fleetwood Mac Reloaded, se esistessero.

Faces of stone non muta le sensazioni di chi state leggendo quanto a già sentito, ma stavolta pare opera a quattro mani di Waters e Nick Cave, fino ad un ritornello in cui ci si ricorda di come Alan Parsons registrava capolavori (anche di Glimour) e si mena di effetti ed armonie per dieci secondi come se si fosse sul lato oscuro della Luna.

A boat lies waiting gioca in avvio con slide ed ulteriori effetti e lascia poi entrare una seconda parte evocativa, floydiana finalmente, che sempre a due accordi di prima e quarta si ferma ma almeno è molto ben giocata sui cori e riesce a salire oltre le note.

Dancing right in front of me fa la ballata con gli accordi in levare e fatica a trovare dignità, col blues del solo che tenta fuori contesto una risalita nella seconda metà ma lascia poi spazio a qualche misura pseudo jazz di piano ancor più fuori contesto. L’intro sarà poi difficle da far digerire in Italia finché ci saranno viventi a cui ricorderà “Il carrozzone”.
In any tongue è più compiuta, riporta un po’ alle atmosfere di The division bell ed ha solidità, ma il punto finora più alto arriva con Beauty, in cui Gilmour imbraccia con maggior convinzione la chitarra e compone con un poco di estro in più; Manzanera lo aiuta a rendere il tutto molto efficace dal punto di vista della resa sonora. Per riportarci alla dura realtà ecco però The girl in the yellow dress, un insensato momento da jazz ballad fumosa in cui di fatto il nostro interpreta con imperturbabile serietà Jessica Rabbit.

Today funziona molto bene, su Gilmour ma anche in assoluto, inglese e pop per indole ma pronta a condurti ad esempio dentro le atmosfere di Learning to fly. Anche qui giro di basso che acchiappa e si porta tutta la canzone. Altra cosa su cui vado ad indagare dopo gli ascolti è che al basso specificamente nei due brani di cui mi è piaciuta la bassline c’è Guy Pratt, spesso presente con Gilmour ma che a mia insaputa stimavo per alcuni singoli anni ’80 e ’90.

Si chiude con And then…, che riprende il tema dell’introduzione e aggiunge la batteria a dare solennità.

Nella versione deluxe trovate anche qualche remix di alcuni brani, ma insomma non è che restando standard dobbiate piangere per il rimorso.

Conclusioni? Due o tre brani di efficacia medio-alta sono, mi rendo conto, un livello tutto sommato in linea con l’offerta commerciale media attuale. Se però leggo David Gilmour sulla copertina (o sul display, ok…) mi faccio anche qualche domanda, la prima delle quali è per forza di cose…

“Serviva?”.