Superficie Ruvida “Fratello resta libero”, recensione

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Quando quotidianamente mi confronto con i miei studenti, mi rendo conto che la maggior parte di loro, pur professandosi dediti alla filosofia hip hop, non sa neppure chi siano i Run Dmc ed i Public Enemy. Non hanno idea di dove stiano andando i nuovi rapper italiani, perché non sanno da dove arrivano. Molto spesso il genere importato dal nero oltreoceano, finisce per subire un angosciante deriva verso il pop, tralasciando la ruvidità primordiale. D’altro canto è pur vero che nuovi stimoli armonici e, per certi versi, easy listening sono emersi già con Notorius B.I.G e Tupac, per poi incanalarsi su ambientazioni basate più sull’estetismo del chorus, che non sui contenuti.

Tra coloro i quali dimostrano di conoscere l’ancestrale popolo sonoro da cui derivano, possiamo annoverare questo nuovo trio, composto da Giec Riot Soup (Giacomo Modolo), Gas (Giacomo Gasparotto) e Pacci (Luca Pacciana), cuori pulsanti di una Superficie ruvida intercalata proprio dalla spigolosa arte di Chuck D e le nostrane avventure di DJ Ax.

Arrivano dalla città del Palladio con un rap consapevole, che forse grazie al retroterra culturale dei suoi creatori, offre spunti diversificati di un poliedrico solido. Un arte street che passa per l’encomiabile progetto Fundametals, grazie al quale i tre musicisti sono stati impegnati nell’avvicinare i bambini all’hip hop, inteso come cultura tout court.

Proprio da qui partono i Superficie Ruvida arrivati al loro interessante debut Fratello resta libero, promosso dalla Over Dub Recordings nel tentativo di considerare attraverso linee di analisi, non solo la propensione del combo, ma anche un’accorta scomposizione della nostra realtà, attraverso barre a sviluppo classico.

Nonostante la mancanza di booklet, l’ascoltatore riesce a inabissarsi immediatamente nelle sonorità street grazie ad una delle migliori tracce del disco; infatti l’opener, oltre ad una curiosa ed indiretta citazione a Fight a faida, ci dona rimandi al political rap newyorkese che trova stimoli similari nella titletrack. Un’analisi sociale che, partendo dalla stella che batte nel cuore del protagonista, invita ( in maniera filosoficamente punk) ad organizzare la propria rabbia sociale. Un grido di battaglia contro un’impostazione troppo borghese di una società malata, attraverso il tracciato battente e ridondante di un beat seducente e disturbante al tempo stesso.

Le strutture sonore del disco non si perdono certo nella banalità, come dimostrano intelaiature ambient ( 6am) e R’n’B (Radici ), punti di partenza per una serie di idee ben concretizzate attorno a tracce impolverate ( Linee d’ombra) e turntamblismi interessanti.
Non mancano poi anime retrò (D’inverno), né ironie descrittive, che fanno di Golden Age un episodio perfetto, pronto a delineare una linea di incontro tra contemporaneità e vintage. Sulla medesima lunghezza d’onda troviamo infine il pianoforte old west di Fuori Luogo, che con le sue linee reggae richiama il mondo della Messa di Vespiri.

Un album che avrei preferito maggiormente dedito alla violenza sonora introdotta dall’opener, ma che, nonostante fisiologiche e funzionali aperture sonore, può arrivare ad un target più esteso, riuscendo a ridestare l’interesse per influssi diversificati al servizio di un genere più che mai vivo.