Vercrash “My brother the godhead”, recensione

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My brother the godhead
Da qualche mese Music on tnt ha avuto il piacere di iniziare una nuova collaborazione con la Fleisch, agenzia di comunicazione da molti anni attenta nella promozione di musicisti. La sinergia tra cliente e stampa viene sapientemente mediata dall’apporto che la società lombarda propone ad mondo musicale vicino alla sfera underground. Così, dopo aver trattato di Afterhours e Matteo Toni approdiamo nel mondo stoner dei Veracrash, occasione sempre lieta per tornare a parlare della Go Down Records, label che proprio in questi mesi compie i due lustri di attività.
Il progetto Veracrash, attivo dal 2003, offre un connubio ben saldo tra la concettualità stoner dei Kyuss e il post hardcore assestabile tra Helmet e Naked Raygun, oggi in presa fisiologicamente più matura rispetto all’extended played The ghost e per certi versi anche rispetto al debut, dal quale ancora oggi la band riesce a estrarre una convincente e genuina verve espositiva. Infatti, questo secondo full lenght rimane fedele al suo intento heavy sci –fi, grazie ad un lavoro di post produzione convincente ed adeguato.
Il disco, registrato al Bombshelter Studio di Orebro (Svezia), trova nel suo periodo di genesi l’apporto di Niklas Kallgren che, abituato ai desertici suoni dei Truckfighters, offre la sua esperienza per la realizzazione di un disco più vitale e deciso del già convincente 11:11.

Ad introdurci nel mondo dei Veracrash è Lucy Lucifer, il cui perfetto intro definisce i clichè del tipico riff stoner, inquieto e potente, al quale si unisce la voce del frontman che, solo a tratti, sembra ricordarci il primo etereo sofferente cantato di Ozzy. Nonostante la convincente linea vocale evolva su piani espositivi differenziati, la spina dorsale del brano viene definita da piccole intelaiature intrise di guitar solo, ben amalgamato alla cupezza di Kali Maa e al drum set schizofrenico di Exit Damnation.
Con gli sviluppi della titlestrack si arriva poi a definire un percorso più riflessivo e meno rabbioso, nonostante il riff granitico e grezzo, che ci apre un orizzonte più attento e meno istintivo, ma al contempo soffocato ed incattivito. Sviluppi artistici che non paiono troppo distanti dagli stilemi del mondo black metal norvegese, forse complice l’urlo asfissiato e teatralizzato che, grazie alla sua espressività, ci indirizza verso la maggior pulizia onirica di questo piccolo splendido incubo. Le strutture ossessive sono fagocitate da un iper-realtà sonora che definisce My brother the godhead come tra le più belle performance del disco.
I riff di A blowjob from Yaldabaoth sono poi catalizzati verso lo stoner di stampo classico, qui offerto tra le pieghe di piccoli cambi direzionali, definiti attorno all’andamento psicotico dei piatti che abbracciano in maniera funzionale un tracciato canoro, innestato tra il sognante mondo l’onirico e l’angoscia esistenziale. L’opera è qui intercalata nel suo finire da una voce femminea che fugge dal background anticipatorio di episodi meno a fuoco come Remote Killing e le sensazioni epic di .

L’album volge poi verso la conclusione attraverso la nereggiante Obey the viod, che sembra trovar ispirazione nelle sonorità di Given to the rising, e l’insolito etero post rock di Trees falling upwards, camera di decompressione, atto preliminare all’esplosione grezza di We own you, bitches che, con i suoi 2 minuti circa, nasconde una sorta di traccia fantasma, un gioco musicale il cui insieme di note ci scortano ad una chiusura attesa e definitiva.

Un disco dunque capace di nascondere gli spazi vitali di un rock in grado di utilizzare gli stilemi stoner come collante primario, nel tentativo (riuscito) di coordinare sensazioni NU con derivazioni psichedeliche e metal, in un viatico tra le diluite e nereggianti intenzioni dei Neurosis e la diretta semplicità dei Queens of the Stone Age.

Tracklist

Lucy, Lucifer
Kali Maa
My Brother the Godhead
A Blowjob from Yaldabaoth
Obey the Void
Remote Killing
Exit Damnation
Allies from the Mirror Megaverse
Trees Falling Upwards
We Own You, Bitches