NADDEI: conosciamo i suoi “Mostri”

Conoscere i propri mostri come anche conoscere i propri segreti o le proprie zone d’ombra. Oppure significa conoscere anche i propri obiettivi, i propri punti luci, l’arte e l’espressione capace di illuminare il nostro modo di essere e di esistere. Ritroviamo Francobeat, ritroviamo Franco Naddei che amplia e “completa” un progetto nato più di un anno fa dal titolo “Mostri”, una release digitale com’è digitale il suono che custodisce a ricamare le trame di grandissimi brani della storia della canzone d’autore italiana in tutte le sue derive, dall’irriverenza degli Skiantos alle solitudini di Tenco passando per l’insurrezione spirituale dei CCCP. E sono versioni tutte sue, tutte personali, adattamenti e mood che fanno di questi celebri scritti fotografie nuove, intime e mai replicabili. L’ascolto diventa interessante soprattutto per questo e non tanto per l’ennesima cover di canzoni famose. Non è questo il target ne vuole assomigliargli lontanamente. Mostrarsi, capirsi, conoscersi attraverso qualcosa di già scritto ma che qui, in questa sede, si rinnova e prende le sembianze di chi gli restituisce voce. Forse è questo l’alto significato di un progetto come “Mostri”. Almeno noi siamo convinti di questo…

Ci eravamo lasciati con una demo di pochi brani. Ora finalmente il disco si completa di altri quadri. Un esperimento che hai deciso di perseguire o era già nei piani una sua estensione?
In realtà il lavoro era pronto già un anno fa, poi sono stato travolto da varie vicende che mi hanno portato a riflettere sulla necessità di lasciarlo andare o di tenermelo come pure esperimento di ricerca sonora, che è poi il motivo per cui ho preso a prestito canzoni di altri.
Di questi tempi fare un disco di cover forse non è l’idea del secolo ma era necessario allontanarmi il più possibile da “Francobeat” che di fatto non aveva una identità sonora unica ma giocava con gli stili, sia musicali che di concetto.
Dopo “Radici”, ultimo album sotto quella bandiera, ho capito che avevo completato una specie di trilogia della fantasia, ovvero i tre album fatti come Francobeat, e l’ultimo è quello che mi ha dato più soddisfazioni e che credo sia l’apice di questo percorso dedicato alla fantasia e alla libera creatività. A quel punto non volevo partire con troppe variabili. Mi sono concentrato sul suono e mi sembrava bello poter far diventare un unico cantautore tutti quelli che avevo scelto, non fosse altro per determinare un filo conduttore forte che se fosse stato capace di tenere insieme Tenco, Graziani, De Andrè, Conte, i CCCP e gli Skiantos avrebbe sicuramente tenuto insieme anche Naddei che in fondo di canzoni di suo pugno ne ha scritte poche, almeno a livello testuale.
Per cui si, mi sono fermato a 10 e ho mandato avanti i primi 5 coraggiosi che si sono prestati per “vedere di nascosto l’effetto che fa”.

Quali altri grandi artisti ti mancano da ripescare?
Nella mia carriera ho sempre messo una cover e mi è sempre piaciuto farne soprattutto se avevano a che fare con l’idea complessiva degli album in cui venivano inserite. Ho sempre cercato di trovare nel comporre un album un momento per studiare, approfondire, leggere, cercare, frugare. Alla fine è successo anche con “Mostri” che di fatto mi ha riavvicinato alla musica d’autore italiana che ho sempre un pò guardato con sufficienza ed ascoltato poco. “Mostri” non è un tributo a nessuno se non alle canzoni e in particolare a quelle che ritenevo avessero la capacità di raccontare qualcosa di me, di intimo e personale.
Forse anche per questo non ho scelto Gaber (peraltro inserito in “Vedo beat” con la sua “L’orgia”), ad esempio, e come lui tutti quelli che avevano una poetica più di attualità e critica sociale che di microstorie vissute sulla pelle. Io cercavo la canzone diretta là dove il ruolo del cantautore si sovrapponeva alla persona “normale”, e non è stato facile trovare canzoni scritte in questo modo. Non potevo fare Guccini, così come Fossati perché non parlano come parlerei io. Già è stato difficile fare De Andrè che per i miei gusti estetici attuali è fin troppo poetico.
La scelta dei brani di “Mostri” è stata affidata più al testo che all’autore e se per qualche motivo anche solo una frase mi suonava storta o non sentivo mia non riuscivo a essere convincente nel riproporla. Con Dalla ad esempio è andata così e non sono riuscito a metterlo tra le scelte. Poi c’erano molti altri, minori, che avevo adocchiato ma non volevo passare per il radical chic che va a prendere le cose meno note per fare il figo.
Diciamo che in tutta questa epoca di ripescaggio e tributi vari volevo almeno stabilire, per quel che mi riguarda, che vale la pena riascoltarsi un po’ di cose del passato ma con uno spirito critico che guardasse alla bellezza ed all’autorevolezza. Vedo intorno a me autori ripescati più perché lontani dalla memoria collettiva media che dal loro effettivo peso in questi termini. Non ho niente contro chi omaggia gli 883 o Venditti o persino i Righeira, ma mi spiacerebbe che poi finisse tutto nel calderone de “la roba vecchia che è tanto bella”.
Volevo farmi ispirare dagli autori che facevano risuonare le mie corde più intime, primordiali ed istintive. Se mi fossi perso ad analizzare tutta la discografia di gente come Battisti o Jannacci forse non avrei ancora finito il disco!

Domanda spirituale: da un simile progetto mi aspetto un bisogno personale di ricerca. Quanto manca alla piena soddisfazione?
La soddisfazione completa non arriva mai perché la ricerca non è mai veramente finita. Secondo me la condizione più ispirata, e a suo modo più comunicativa, è quella del sentirsi in pericolo. Fare “Mostri” mi ha messo in pericolo in termini di confronto, di parole che mai avrei detto e cantato e di suoni attorno che potevano risultare goffi, spiacevoli, cupi o fintamente allegri. Se c’è un ruolo dell’autore oggi è proprio quello di vivere questa condizione con la massima maturità e serenità per osservarla al meglio e per poterla raccontare a tutti. Se ho la capacità e l’esigenza di raccontare so da dove cominciare, e come. Io qui ho scelto di raccontare me stesso attraverso le parole prese a prestito da altri autori. Tutto quello in più che avevo da dire l’ho messo nel suono. Faccio elettronica da molti anni e tutto quello che è “Mostri” è stato prima suonato, analogicamente e senza computer, come se avessi avuto la chitarra in mano. Chi lavora con l’elettronica spesso si perde in giga e giga di librerie di suoni perdendo forse il “suo” suono che è quello che hai nelle mani come per qualsiasi altro strumento. Mi sono dato dei limiti, pochi aggeggi che potessero permettermi di dire quel poco in più, o in meno, rispetto alle canzoni che stavo maneggiando. L’ho fatto con cura e anche con strafottenza ma solo per mantenere la stessa intenzione di sincerità con cui credo siano stati scritti i brani originali. Non è un disco di arrangiamenti folli. Io l’ho pensato come fosse un disco qualsiasi dei Ramones o dei Velvet Underground. Tre elementi che si combinano in infinite maniere diverse che danno sempre un risultato nuovo. La mia piena soddisfazione sarà quando riuscirò a togliere tutto rimanendo probabilmente in mutande e nemmeno tanto pulite.

E con questa voce personale rapita ai grandi artisti, hai riconosciuto pienamente il nuovo Francobeat?
Francobeat artisticamente credo sia acqua passata che comunque fa parte del mio DNA. Il fatto di essermi posto con una specie di alter-ego ha cominciato a disturbarmi. Tutt’ora in questa faccenda di “Mostri” ho cercato un meccanismo di difesa ma con l’intenzione iniziale di smantellarlo. Quando parli di voce, poi, posso dirti che son partito proprio da quella, dalla mia. Riascoltando il disco mi sono reso conto di aver sfruttato i toni gravi, la voce non urlata se non in rarissimi casi. Naddei è diverso da Francobeat, ma sono anche Caino e Abele. Da produttore ed arrangiatore è facile osservare da fuori l’artista che ti chiede di tirargli fuori il meglio, almeno secondo la tua visione per cui sei investito di questo ruolo. Per fare il produttore di me stesso ho dovuto innanzitutto staccarmi dal passato e provare a guardarmi da un altro punto di vista.
Mi sono creato una situazione di “non confort” per osservarmi meglio e rivolgendomi ai nostri mostri sacri del cantautorato ho permesso a Naddei di sentirsi libero. Se fossi partito subito con brani originali forse non ce l’avrei fatta. Troppe variabili tutte insieme. Poi ho un rispetto talmente profondo per chi sa scrivere i testi delle canzoni che ho un grande pudore nell’affrontare di nuovo l’argomento. Provare a sentire come reagisce la tua voce su certe melodie, certe parole che ritieni ispiranti e che ti emozionano è già un punto di partenza. E da qui partire e cercare la via della necessità di raccontare, di vivere, come appunto dice Gaetano in “Tu, forse non essenzialmente tu”.

Di tutti questi “mostri” c’è qualcosa che terrai con te per le tue prossime scritture o sono derive che hanno solo riguardato questo progetto e nient’altro?
Spero che mi rimangano sottopelle e che mi aiutino a capire cosa non fare nel futuro. Che a guardarlo da fuori “Mostri” non è per me nemmeno una deriva, in termini estetici e poetici. Di fatto è un disco che parla innanzitutto dell’amore e di tutto quello che ci ruota attorno. Il mio modo di affrontare i dischi evidentemente cerca sempre il “concept”, così come accadeva a Francobeat, e il concept di “Mostri” mi mette sull’avviso. Sii sincero, racconta quello che ti capita nella vita, quello che vedi, come lo vivi e che credi valga la pena condividere.
Che sia efficace o meno io credo lo dirà il modo con cui saprò evitare di nascondermi. Se ho scelto certe canzoni è perché mi hanno dato modo di raccontare cose che non avrei mai avuto il coraggio di raccontare. Quello che terrò, e terrò sempre a mente, è che quando mi metterò a scrivere dovrò avere una voglia matta di raccontare quello che mi passa per la testa, senza fronzoli, senza troppa poesia, possibilmente senza censura e senza troppe pretese ma sapendo che quello che sto raccontando non è solo mio, non è capitato solo a me ma gli ho semplicemente dato voce.
Certe frasi contenute in “Mostri” quando le canto dal vivo mi fanno venire proprio i brividi. Mi piacerebbe davvero tanto riuscire a farmi venire i brividi rileggendo e riascoltando una mia canzone.