Storia del Jazz – Capitolo 2 – Al posto della libertà : Le peculiarità della musica afroamericana

NULL

L’arte – il blues, gli spiritual, il jazz, la danza – era quello che gli schiavi avevano al posto della libertà

Con questa frase di Ralph Ellison ci è piaciuto aprire questa nostra dissertazione, proprio perché esprime compiutamente quella che era la situazione negli Stati Uniti d’America all’inizio del secolo che si è appena chiuso. La musica, per il popolo nero americano era l’unica via di fuga da un ostracismo culturale – e soprattutto razziale – che essi hanno subito per interi decenni e da cui, per certi versi, continuano ad essere vessati.

Louis Armstrong

Cominciando con ordine e volgendo lo sguardo al passato, notiamo che fin dagli albori del jazz, da quello stile detto di “New Orleans”, caratterizzato dal tipico sound delle orchestrine nere formate solitamente da cornetta, clarinetto, trombone e sezione ritmica (originariamente composta da banjo, basso-tuba, batteria e successivamente reimpostata con pianoforte, contrabbasso e batteria) si incontrano i primi, pallidi tentativi di instaurare legami con la lontana Madre Africa. Furono infatti incisi brani con titoli quali Zulu’s Ball, oppure The King of Zulus del quintetto di Louis Armostrong (quest’ultimo brano molto più vicino a certe sonorità veramente nere che non il primo, che ebbe comunque il merito di essere stato registrato già nel 1923 dal leggendario trombettista “King” Oliver).

E’ Proprio in questo periodo che si veniva diffondendo, tra molte contraddizioni, un’idea complessa della negritudine e dei valori africani e afroamericani. Ad esempio, nella società statunitense si stavano imponendo balli di sicura matrice nera.. Il problema, potremmo dire, etico, che si venne a porre di lì a poco era quello di capire quanto rispetto della verità culturale e, soprattutto musicale, c’era in questo ricollegarsi all’Africa. Pensiamo per un momento – e ci si concederà senz’altro il recupero di un certo sdegno per ciò che stiamo per sottolineare – al primo film sonorizzato: Il cantante di jazz di Alan Crosland del 1927, con il protagonista Al Jolson, bianco, che, per interpretare il cantante nero, si presenta al pubblico con in faccia lucido da scarpe e tanto di labbroni bianchi! O, ancor peggio, al cortometraggio A rhapsody in black and blue di Aubrey Scotto, in cui Armstrong suona e canta vestito con costume leopardato, in perfetto atteggiamento di sottomissione alla recondita minaccia razzista wasp.

Nella musica le cose non vanno meglio se pensiamo che ora, a fianco delle orchestre nere, compaiono quelle bianche, guidate da direttori come Paul Whiteman o Jean Goldkette. L’unico grande merito che essi ebbero fu quello di avere annoverati fra le file dei loro musicisti nomi che giganteggeranno presto fra tutti gli altri: quelli, ad esempio, del trombettista Bix Beiderbecke, del sassofonista Frankie Trumbauer, del violinista Joe Venuti. Ma al di là della genialità di singoli elementi (tutti bianchi ovviamente, perché non “era bene” che bianchi e neri si mischiassero tra loro!) il livello artistico di questi ensemble musicali non raggiunse se non raramente quello dei contemporanei combos di colore.

Pensiamo a due grandi nomi di direttori, compositori e pianisti neri che si imposero quasi contemporaneamente: quello di Fletcher Henderson e quello di Ferdinand Jelly “Roll” Morton. Il primo, mancato chimico, divenne leader di un’orchestra di tutto rispetto (rigorosamente di colore!), che, con la collaborazione del grande arrangiatore Don Redman, diede una marcata impronta di uno stile originale e ben definito artisticamente.

Fletcher Henderson and his Orchestra

Gli arrangiamenti più riusciti di Redman per questa orchestra – e pensiamo ad un loro cavallo di battaglia, Copenaghen – consistono in un’alternanza di collettivi strumentali improvvisati, assoli con o senza fondali armonizzati; in tutte queste combinazioni ottoni (trombe e tromboni) e ance (sassofoni, clarinetti) si contrappongono: queste eseguono armonie piuttosto statiche e immote, quelli passaggi d’assieme più mossi.

Morton

L’altra figura di sconvolgente fascino è quella di Morton; chi non ricorda la memorabile scena del film La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore, in cui Morton sfida a duello il protagonista, Novecento, a colpi di pezzi di bravura sulla tastiera? (L’episodio è peraltro ripreso, nel testo di Baricco da cui è tratta la sceneggiatura, da un racconto di Lil Hardin, prima moglie di Louis Armstrong, che veramente incontrò e sconfisse Morton, con un pezzo di bravura di musica classica, però!) Per capire immediatamente il carattere di questo personaggio sono sufficienti quei pochi minuti di pellicola. Ma per comprenderne appieno la genialità ci vuole un impegno ben maggiore. Pianista di levatura sensazionale, compositore di brani originali e significativi ancora oggi e arrangiatore mai banale dei suoi stessi pezzi, Morton non a caso faceva scrivere sui suoi biglietti da visita: “L’inventore del jazz”!

Anche solo soffermandosi sul suo pianismo si può avere una compiuta idea della sua grandezza di musicista; un brano come The crave ad esempio, manifesta alcune qualità imprescindibili del suo gusto: la varietà stilistica (è una sorta di habanera spagnoleggiante) si unisce ad una grazia quasi clavicembalistica nell’esecuzione e, nello stesso tempo, al groove jazzistico e improvvisativo inesorabilmente nero. A proposito anzi della sua cultura musicale, assolutamente “onnivora”, possiamo ricordare come Morton appartenesse alla buona società creola e come quindi fosse venuto in contatto con la cultura musicale classica, derivata soprattutto dalla grande opera francese.

Egli seppe infine dare grandissima espressione a quello che in gergo jazzistico è definito il “break”, un’interruzione ritmica, cioè, che carica il brano di particolare espressività e mood. Al solito, Morton se ne attribuiva l’invenzione, anche perché sosteneva che “senza break non c’è jazz” e che i break “non vennero in auge fin quando io non inventai il jazz”. Sono innumerevoli i pezzi in cui è messo in pratica quest’uso, da Big Foot Ham per piano solo a Granpa’s bells in cui è la chitarra a suonare sui break, a Black Bottom stomp a Mr Jelly Lord.

Concludendo questa breve indagine su Mister Morton ci piace citare una sua frase, che manifesta tutta la sua matrice “afrocentrica”: “dare sempre melodia a tutto ritmo”.