?Alos “Era”, recensione

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È uscito da pochi giorni sul mercato underground il nuovo racconto della signorina ?Alos, una piccola e nera perla dal nome ERA. Un disco che trascina con sé l’usuale corporatura esile di un mondo folle, raccontato dall’apocrifo linguaggio dell’inquieto alter ego di Stefania Pedretti che, anche questa volta, non tradisce le attese, rimanendo ancorata al suo credo sperimentale, arrivando a curare i dettagli in maniera forse più matura rispetto alle precedenti sfregi musicali.

Il disco si presenta sotto le sembianze di un magnifico LP dal rosso vinile, timbrato a secco dalla Tarzan Records, only vinyl label, che ritroviamo nuovamente sulle nostre pagine, dopo pochi passi nel tempo. L’opera dall’anima Ovo ci trascina sin dai primi istanti in una preistoria paleolitica, in cui la signorina si ritrova proiettata come vittima degli eventi.

La stessa ottima cover art offre con la sua sessione fotografica, curata da Natalia Saurin, una visione inquieta e dispersa, tra solitudine e mefistofeliche sensazione visive, da cui fuoriesce la volontà di ritorno alle origini, ben metaforizzata dalla fetale postura in copertina che apre al silenzio delle caverne, all’urlo della preistoria e alla flagrante assenza di rumori dal suono primordiale, distorto e travolgente.

Ad aprire il lato A è il lungo tragitto di Panas, da cui si erge una solitaria litania arcaica fagocitata da un uso diluito di iperdoom distorto. Un suono corposo e cavernoso che per certi versi ricorda il mondo cupo e deflagrato degli Hierophant, anche se in ?Alos sembra esistere un’illusoria sensazione di mitigazione di quella cupezza quasi demoniaca e sofferta.
L’artista infatti riesce a portarci con la sua solita abilità espressiva a rapire le nostre sensazioni, portandoci all’interno di un incubo che deve molto al teatro d’avanguardia e all’estrema voglia di sperimentare. L atraccia riesce comunque a divincolarsi dai soliti clichè del genere, arrivando a mescolarsi con sonorità heavy prima e una dispersione classica poi, accompagnandoci in una Dimension hatross riassestata su di una Era lontana e minimale.

La lunga suite iniziale mostra inoltre una buona maturità compositiva, impreziosita dal violoncello di JK che aiuta l’anticlimax a viaggiare su di un’aria vintage che richiama gli anni ’70.

Il disco, come dimostrano le note dei tre brani, appartiene a quelle opere che necessitano un’attenzione inevitabile per riuscire a ben percepire i suoi intenti, proprio come accade nel black outro di Panas, in cui il volo pindarico dell’astante dovrà mostrarsi pavido per riuscire ad entrare in quella fredda caverna con la signorina ?Alos.

La pioggia di note di Cammineremo sui nostri corpi si poggiano poi sullo struggente lavoro di Kris Force, intento ad anelare a sensazioni primarie in cui la vocalità cede ad accenni growl, saziando emozioni nereggiati per cui risulta impossibile rimanere ciechi davanti all’intento evocativo che fa di questo disco un qualcosa di piacevole di cui parlare.

A chiudere il rosso vinile è infine il lato B, interamente occupato dalla titletrack, il cui risveglio attraversa il verde vergine immaginifico che si erge da silenzi, suoni e rumori di una natura che vive nella mente e nel ricordo ancestrale. Una storia di vita kafkiana, simulacro lessicale che non lascia molto scampo al suo voluto intento sperimentale in cui gli archi tendono a voler metaforizzare il risveglio di una labirintica foresta, tra il freddo espresso dalle linee vocali e la naturalezza del suo crescere verso un finale in cui la paura domina rabbia e coraggio.