Animation “Machine Language”, recensione

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Sarà la vecchiaia, sarà la noia, sarà la frenesia… oppure il tempo che mangia la mia vita, ma da qualche anno trovo atterrimento nell’affrontare libri troppo voluminosi, film che superano le due ore e dischi che non rispettano la durata vinilica. Poi però, forse nel tentativo di dare alito vitale all’eccezione che conferma la regola, mi ritrovo a godere di “delitti e castighi”, di lupi a Wall Street e animazioni emotive che accolgono la mia insofferenza, riuscendo a controllare in maniera magica il mio ordine del tempo. Almeno così è successo questa notte, in cui suoni di Machine language hanno ipnotizzato l’angoscia eraclea, fermando lo scorrere dei silenti istanti attorno a me.
Infatti il nuovo disco di Bob Belden ha (e ha avuto) il merito di dare luminosità ponderata ad un ascolto fermo, magnetizzato attraverso le sue narrazioni ( A child’s dream ) ed i suoi rimandi letterari e cinefili. Infatti, il mondo a tratti surreale degli Animation si offre con naturalezza, attraverso metafore kubrickiane, in grado di alimentare con il libero drum and bass ( Machine language ) il suo delicato sapore jazz ( Soul of machine ) ed il narrato espressivo di Kurt Elling.

Registrato nel 2014 agli Orange Studios di Bill Laswell, il disco offre inquieti risvolti sonori, in cui l’ipnotica ridondanza si pone al fianco di giochi distorti e rimandi fantascientifici legati all’arte di Philip Dick ed Isaac Asimov, ponendo al centro del concept il futuristico rapporto tra l’uomo e la macchina, vissuto più ai margini dell’immaginazione che non in relazione alle leggi della robotica. I brani visionari, espressivi e liberi, raccontano in modalità free ( Genesis code ) sensazioni vintage ( Disappearannihilation ) e le oscurità profonde di timbriche ammalianti ( Dark Matter ).

Tra i brani più interessanti del full leght emerge la nebulosa e perduta stabilità posta i confini di Technomelancolia , in cui Pete Clagett gioca con le disorientante impronte sintetiche e gli echi delle keyboards, vibrate al di sotto del orientaleggiante uso di piatti e delle melliflue anticipazioni, ponte naturale verso la chiusura di un altro sogno proto psichedelico.

Un viaggio, dunque, tra dimensioni atroci e per certi versi inquiete, resa accogliente e stimolante dalle strutture sonore di un disco che, come ben sa la Rare Noise Records, racconta ad un élite pronta e preparata.