Busi Mhlongo – Urban Zulu.

copertina di Urban Zulu di Busi Mhlongo

Trascorrevano gli anni 60 mentre l’Africa, violentata in molti modi dalla cosiddetta “civilizzazione” europea, avviava la sua rifondazione culturale con entusiasmo e fatica. La gestazione avveniva dove maggiore era stata la devastazione, nei blob metropolitani violentemente divisi in due, da un lato le recinsioni delle ville, dall’altro i ghetti di lamiera e fango. In quei luoghi arroventati dal sole e dai conflitti furono partoriti lo zulu-jazz di Myriam Makeba e Hugh Masekela, lo yoruba-funky di Fela Kuti e la makossa-dance di Manu Dibango.

Oggi le caotiche realtà urbane dell’Africa sub-sahariana appaiono come le nuove giungle globalizzate. E’ in quegli ambienti marziani che molte attività produttive e artistiche si sono adattate a riciclare i nostri rifiuti industriali con straordinaria creatività, creando opere originali a partire da taniche di plastica e vecchie marmitte arrugginite. Rispetto ai villaggi sperduti tra savane e foreste, gli artisti delle metropoli africane sono esposti alle influenze del mondo e – a noi non viene in mente – possono contare sull’elettricità.

La musica urbana è oggi uno dei principali linguaggi dell’Africa, in cui gli strumenti amplificati – chitarre, bassi e tastiere – si accostano agli antichi suoni dei liuti, dei flauti e dei tamburi, in cui, accanto alle strutture tradizionali della poliritmia e dei canti a chiamata e risposta, nell’ordito musicale si sovrappongono armonie ed elementi costruttivi – come la segmentazione dei brani – provenienti dal rock, dalla black music e dal jazz. Questo processo creativo è tuttora in atto, e anche se a volte produce risultati discutibili, in qualche caso la sintesi riesce, e nasce qualcosa di nuovo.

Urban Zulu è un caso esemplare di cosa può accadere quando quella sintesi ha successo, per questo è un disco la cui importanza supera di gran lunga la sua non trascurabile notorietà.

Pur essendo all’origine pura musica tradizionale zulu, la maskanda (una distorsione fonetica della parola “musicista” in lingua afrikans) di Busi Mhlongo ha subito un processo di elaborazione durato ben due anni prima che i Twasa entrassero in sala di registrazione, durante i quali la componente tradizionale ha avuto il tempo di fondersi perfettamente con i suoni internazionali. Il risultato è un mix tremendamente efficace di cori zulu e riffs ricorsivi di chitarre acustiche ed elettriche che poggiano su un groove poliritmico di tutto rispetto, ingredienti talmente ben assemblati che Urban Zulu elude qualsiasi tentativo di classificazione: è al tempo stesso maskanda, rock, soul, jazz.

Busi Mhlongo, originaria della provincia del Natal in Sud Africa, il Kwa-Zulu, la terra lasciata agli zulu nei primi anni della dominazione inglese, ha alle spalle una storia artistica importante. La sua carriera iniziò addirittura negli anni 60 quando, a meno di 20 anni, vinse il suo primo festival per esordienti. Negli anni difficili dell’apartheid Busi ha girato il mondo con la sua musica – l’Africa, l’Europa e l’America – da sola o collaborando con Hugh Masekela, Dollar Brand, Dudu Pukwana, i Ladysmith Black Mambazo e molti altri. Il suo album di debutto con i Twasa, da lei fondati, vide la luce soltanto nella seconda metà degli anni 90, ma fu con Urban Zulu, il suo capolavoro del 1998, che Busi fu riconosciuta come una delle principali interpreti femminili sudafricane e vinse numerosi premi, tra cui il prestigiosissimo Kora Award.

La sua voce straordinaria e intensa è capace di commuovere e di stupire con la sua agilità pirotecnica. Accompagnata dai complessi e articolati cori zulu è la protagonista di ogni canzone, e non ci si stanca nel scoprirne tutte le capacità espressive, nei suoi gorgheggi, nelle urla e nei più impercettibili mormorii.

I musicisti che la accompagnano sono tutti africani, principalmente zulu. Tra essi spiccano il basso di Themba Ngcabo, le chitarre di Jack Djeyim e di Mkaletwa Ngwazi – con Ngcabo e Mhlongo co-autore di tutti i brani – e la batteria di Brice Wassy. Tra gli ospiti troviamo anche il cantautore congolese Lokua Kanza, la splendida marimba di Simpiwe Motole e persino la kora di Moussa Kanoute.

Cantate in una lingua piena di suoni click che colorano le voci, le canzoni sono tutte straordinarie e i testi essenziali e veri, tratteggiando con semplici pennellate la realtà dell’Africa, con i suoi problemi e le sue aspirazioni. Due esempi fra tutti. Yapeli’Mali Yami è semplicemente una lettera di una donna africana che scrive al suo uomo lontano, una traccia sulla quale costruire la storia di un’Africa contaporanea che non viene raccontata fino in fondo. “ I miei soldi sono finiti, questo è il motivo per cui ti scrivo una lettera, amore mio. Perché non mi rispondi? I miei soldi sono tutti andati amore mio, per favore rispondimi.”. Zhitin’Izizwe vuol dire “cosa dicono di noi?”, e si rivolge efficacemente ai bianchi sud-africani. “cosa dicono di noi nelle altre nazioni? Cosa dicono del vostro comportamento, Afrikans? Uccidersi l’un l’altro lede la vostra dignità, per questo parlano male di voi. Voglio raccontare in Natal e a Johannesburg cosa viene detto.Per favore, amiamoci l’un l’altro, questa terra è nostra, appartiene a ognuno di noi”.

Le note di copertina descrivono Urban Zulu “maskanda per il nuovo millennio”, e qualcuno ha affermato che, dopo la sua uscita, qualsiasi artista vorrà produrre musica africana contemporanea dovrà confrontarsi con il capolavoro di Busi Mhlongo. Sono assolutamente d’accordo. Questo album è un traguardo raggiunto, esso rappresenta in modo impeccabile ciò che l’Africa è in grado di dire al mondo quando ha la forza di essere semplicemente sé stessa, senza vergognarsi di ciò che ha subito.

Brani:

1. Yehusan’Umoya Ma-Africa
2. Yapheli’Mali Yami
3. We Baba Omncane
4. Ukuthula
5. Yise Wabant’A Bami
6. Uganga Nge Ngane
7. NgadlalwaYindoda
8. Nguye Lo
9. Zithin’Izizwe
10. Awukho Umuzi Ongena Kukhuluma K’Wawo
11. Oxamu