Delta Machine – Depeche Mode

Quando si parla di Depeche Mode si parla praticamente di un pezzo di storia delle musica contemporanea.

Questi (ormai da tempo rimasti in) tre signori inglesi sono cresciuti insieme con una propria idea di musica che non ha mai visto presentare delle svolte di tipo stilistico, alla faccia di chi dice che per un artista è necessario, ad un certo punto della propria carriera, svoltare e cambiare rotta per rimanere a galla.
E invece per Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher la stella da seguire è sempre stata rappresentata dall’Elettronica, mischiata qua e là con strumenti acustici o elettrici più riconducibili al rock, ma sempre e comunque sotto il dominio assoluto delle tastiere e dell’immensa varietà di suoni che sin dagli anni 80 offrono i computer. L’atmosfera dei loro dischi è sempre stata oscura, dark o, in certi casi, addirittura angosciante e anche Delta Machine non si scosta dalla loro tradizione riprendendo le fila del discorso da dove l’avevano lasciato, con l’ultimo “Sound of the universe” (in realtà un album non proprio imprescindibile).

Partendo dal singolo “Heaven” – una super ballatona – direi che è stato ben scelto dalla truppa, essendo oggettivamente il pezzo melodicamente più accattivante del disco. In sé ha qualcosa che, come il titolo stesso suggerisce, evoca spiritualità ed è interpretato così intensamente da Gahan da farmi affermare che era dai tempi di “Waiting for the night” (Violator) che la band non ci emozionava a questi livelli.

Altro brano una spanna più in alto rispetto alle altre (ben 17, se si tratta dell’edizione deluxe) a mio avviso è “Broken” che ricorda un po’ la linea melodica di “Question of time” (Blak celebration), ma con un tempo leggermente più rallentato. I tappeti di suoni che le fanno da sfondo sono così tanti che non si contano e il refrain è uno di quelli che restano nelle orecchie per ore. Ci immaginiamo già le folle oceaniche cantarla a squarcia gola negli stadi, nella prossima estate. Il primo episodio riservato alla voce di Gore (altra costante immancabile in ogni album dei Depeche) invece è l’introspettivo e piacevole “The child inside” e, anche qui mi vedo costretto un po’ a ripetermi, negli ultimi dischi a mio modesto avviso non ne aveva azzeccata una che era una, eccedendo troppo nella voglia di sperimentare nella direzione sbagliata.

Si torna altrettanto piacevolmente a Gahan con la più sussurrata, ma decisa, “Should be higher”, scandita da un ritmo che trascina l’ascoltatore in un ipnotico e coinvolgente vortice. Bellissima. Seguono, poi, il crescendo di “Alone” (che offre il meglio di sé nella parte finale), la cavalcata sintetica di “Soothe my soul”, fino ad arrivare alla finale (per l’edizione standard) “Goodbye” che è accompagnata da una linea di chitarra elettrica che è tutta opera di Gore e che resta praticamente invariata dall’inizio alla fine, come già accaduto in passato (la “Freestate” di Ultra o la mitica “Personal Jesus” sono i pezzi che prima di tutti mi vengono in mente). Notevole.

Delle quattro extra tracks, infine, citerei sostanzialmente la dolce “Happens all the time” che si spera verrà comunque recuperata live, e “All that’s mine” che chiude definitivamente i giochi, incorniciando un ritorno dei Depeche Mode che definirei semplicemente “più che ottimo”.