Espada “Love storm”, recensione

espada.jpg

Un balzo all’indietro!

Montate in sella all’unicorno degli Espada e tornerete verso un passato musicale ricco di sfumature e rimandi, in grado di recuperare i ricordi e modificare le sensazioni.

Così accade sin dall’ottima overture: Hard Times , posta tra Doors, Billy Idol e classic rock. Ma non illudetevi, perché il mondo di Giacomo Gigli non si accontenta certo. Pronto a dare verbo a stilemi d’oltreoceano (Dweyn), il quintetto viaggia agli inizi degli anni ‘60, tra minimalismo e aperture desertiche, dove il drum set di Leonardo Pucci offre il giusto pattern per una sofferta narratività. Emozioni che giungono a mostrare venature dobro con The number, in cui maturano idee perfettibili, ma immediatamente riassestate grazie ai filtri vocali di The tour, sussurrata traccia pseudo country, in cui la band gioca con i silenzi e la pacatezza espressiva.

L’album, vestito dall’arte di Francesca De mai, trova il proprio climax espressivo con il sangue indie di Young and devious, delicata musicalità da ascoltare immobili in un mondo in eterno movimento. La composizione di certo annoverabile tra le migliori intuizioni espressive di questo Love Storm, restituisce accorte sensazioni Sparklehorse anche grazie ad un celato alt- country pronto ad aprire il proprio sound ad accordi liberi che, nella sua seconda parte, mutano direzione, definendo un’anelata spensieratezza, senza però mai esplicitarla.

A chiudere l’ottimo disco (promosso da Fleisch Agency) sono le sonorità di The well,in cui il synth di Dan Kinzelman funge da collante per un tracciato che si pone con abilità tra easy listening (Heart of ice) e metodiche alternative.

Nessun dubbio, pertanto, nel regalare a questo disco un voto solido e concreto.