Eye of solitude” CAnto III”, recensione

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Cupo, visionario e desolante; ecco le parole fulcro di un album splendidamente tinto di nereggiante depressive. Un opera coraggiosa, in grado di esplorare con armonia mefistofelica un sentiero polveroso, in cui dotti rimandi letterari sorprendo e delineano un viatico inquieto e desertico.

Gli occhi della solitudine vanno a posarsi sulla splendida cover art, in cui le tonalità cromatiche appaiono perse ed oniriche, atte ad aprire la nostra dipartita attraverso le acque dello Stige, quieto (ed inquieto mondo) vissuto nel silente tracciato percorso dalla mietitrice. L’ascoltatore è convocato tra i meandri di un vestibolo sonoro, rappresentazione di una linea di confine persa nell’oblio e nell’aberrazione.

Il disco, da ascoltare ad occhi serrati, si sviluppa attraverso un velato concept, che trova i propri sviluppi tra le terzine incatenate dell’inferno dantesco, da cui la band riprende fedelmente alcuni passi del Canto I, proprio nel loro splendore volgar fiorentino dell’operner Act I. Between two worlds (occularis infernum), in cui il graduale arrangiamento di archi, fonde suoni lontani, racchiudendo in sé le sensazioni di un’imminente persa e desolante solitudine.

Attraverso una sorta di approccio depressive bm, il racconto ci arriva in maniera sequenziale, senza nessun tipo di urgenza narrativa, proprio come in un film felliniano, in cui ci viene raccontato un compendio di piccole sfumature immerse in macro sensazioni, pronte a svilire la narrazione ed implodere nell’attesa emotiva di una ritmica rallentata in virulento growling.
Il calmierante approccio dai risvolti cripto gregoriani, utilizza poi un atteso pattern usabile per la pulizia del canto primo della “Commedia Divina”, per poi acuire la sofferenza fiammante ed infernale della narrazione, attraverso una vera e propria esplosione in blasting.

I tipici andamenti scandinavi trovano poi terreno fertile nella granulosa linea di cantato, che si alterna tra sudiceria e nitidezza, immerse in estremismi sonori intensi ed interconnessi tra sensazioni gothic e superflue aperture heavy. Il meglio di sé la band sembra però donarlo su nebbiosi approcci depressive, proprio come accade con l’atto V°, per poi destarsi dall’onirica catena in In the desert Vast, il cui lo scary impact si appoggia a un violentissimo riffing basato su di un pattern alle pelli, tanto intenso quanto caldo, pronto a tranciarsi in maniera improvvisa verso la zona quieta del modulato. Da qui si riparte verso un suono lontano e nerissimo, il cui l’andamento doom spegne lentamente un disco che, a mio avviso, appare perfetto. Un opera in grado di ridefinire, tra contrasti e cromatismi avvolgenti, un viaggio tra gli inferi immersi in una non-realtà ipotetica, incastonata all’interno di asincroni sentieri inquinati da dolore, paura e disorientamento.

Un percorso lungo 66 minuti attraverso i quali sarete trasportati in un incubo da cui la vostra anima difficilmente ne potrà uscire indenne

01. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)

02. Act II: Where The Descent Began

03. Act III: He Who Willingly Suffers

04. Act IV: The Pathway Had Been Lost

05. Act V: I Sat In Silence

06. Act VI: In The Desert Vast