Fleet foxes – recensione del cd omonimo.

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Arrivano da Seattle ma non sono eredi né di Hendrix né di Cobain: il loro omonimo album d’esordio mostra segni di progenitori molto più ancestrali.
In copertina, un particolare dai “Proverbi fiamminghi” di Pieter Bruegel suggerisce l’epoca e perfino il luogo dal quale pare provenire il coro lontano e disarmonico d’apertura.
Una delicatissima chitarra ed un banjo creano un ponte tra i due mondi sul quale fluttua il canto vellutato ed onirico di Robin Pecknold.
Gradatamente gli altri membri del gruppo aggiungono sfumature vocali dalla maggiore consistenza materica: il banjo lascia il posto a chitarre più decise che si sporcano leggermente, sostenute da percussioni ostinate.

Con le stesse atmosfere, e con sonorità che a tratti ricordano quelle dei My Morning Jacket, i brani successivi ci guidano attraverso boschi, monti innevati e scorci da fiaba. I testi sono principalmente descrittivi e pur nella loro essenzialità riescono a delineare immagini estremamente vivide con brevi tratti, come in “White Winter Hymnal” , che data la brevità riporto per intero:

I was following the pack
all swallowed in their coats
with scarves of red tied ’round their throats
to keep their little heads
from fallin’ in the snow
And I turned ’round and there you go
And, Michael, you would fall
and turn the white snow red as strawberries
in the summertime..

“Ragged wood” si apre con uno splendido e dolcissimo arpeggio per poi abbandonarsi ad un ritmo più sostenuto, mentre il cantato si fa più intenso ed energico; il tutto sempre intervallato da momenti distesi e dal sapore secolare. Anche la malinconica “Tiger mountain peasant song”, ballata riflessiva sul distacco e sulla morte, si distingue per l’estrema dolcezza.

I brani successivi si sviluppano fedeli a questa formula di commistione tra antico e moderno, precisione musicale e vaghezza testuale, assenza di brusche variazioni cromatiche in favore di sfumature stese a piccole pennellate come in un quadro impressionista. Il dosaggio meticoloso di ogni dettaglio non va mai a scapito dell’intensità, come dimostra la coinvolgente “He doesn’t know why”.

Da segnalare l’espressività strumentale di “Quiet houses” nella quale il cantato, costituito da poche e brevi frasi ripetute, diventa accompagnamento per i giochi classicheggianti delle chitarre, e di “Heard them stirring”, il brano più cupo del disco, nel quale la condotta strumentale è in primo piano sorretta ed arricchita da evocativi vocalizzi.

“Your protector” ripropone l’alternanza tra attimi distesi ed altri carichi di tensione, con percussioni che richiamano i tamburi usati negli scontri tra eserciti in epoche passate. Esse contribuiscono a creare un senso di solennità e di tempo indefinito, e per questo assoluto.

A seguire un’altra stupenda ballata dai toni delicati e nostalgici, “Meadowlarks”. Ancora una volta il tema è quello della morte; una morte da eroe epico con corone e cornucopie, tanto triste quanto poetica. Chiudono questo riuscitissimo lavoro “Blue ridge mountains” e “Oliver James”, due brani essenziali ma estremamente intensi, che ci lasciano con la curiosità di sapere come i Fleet Foxes evolveranno da questo brillante esordio.