Francesco Guccini – Folk Beat N.1 recensione

Francesco Guccini

Il classico non muore mai. In particolar modo se quest’ultimo rappresenta la favola più latente di tutte: l’Italia. Raccontare dell’Italia non è difficile: basta solo sputarci sopra, metterci un bel giro di chitarra ritmica e il gioco è fatto. In giro per l’Europa c’era chi già provvedeva a raccontare le sorti del suo paese con il folk, il blues, il rock; anche noi dal canto nostro, alla fine degli anni 60, facevamo la nostra parte con varie band, in particolar modo con una: i Nomadi di Augusto. Il loro brano “Noi Non Ci Saremo” fu un grande successo, poiché seppe toccare il cuore di tutti quelli che speravano in un domani migliore e, sicuramente, più “biologico”. Ma, dietro la meravigliosa poesia del testo e un po’ di fumo, si nascondeva qualcuno. Un uomo, non ancora iscritto alla SIAE, che aveva avuto modo ( durante gli studi universitari ) di scrivere delle canzoni che diede non solo ai “Vagabondi”, ma anche all’Equipe 84: si sta parlando di grandi pezzi immortali come “Auschwitz” e “L’Antisociale”. Quella figura misteriosa che nascondeva una voce delicata, ma con qualche difetto, è un figlio dell’Emilia: Francesco Guccini.

Nel 1966, allo studio Basilica di Milano, Francesco decise d’incidere un album che avrebbe contenuto non solo i suoi brani già editi, ma anche un’altra manciata di canzoni completamente nuove. Il disco, ricordato col nome di “Francesco”, venne intitolato “Folk Beat N.1”, poiché prendeva non pochi spunti dallo stile dylaniano. Un album interamente originato dal suono della chitarra ritmica con la collaborazione di Antonio Roveri (alla chitarra solista) e Alan Cooper (armonica e chitarra ritmica), che contribuiscono, maggiormente, a creare una certa intimità con l’ascoltatore, il quale viene coinvolto in un dibattito sull’Italia del presente, del futuro e del passato. Non sempre ottimistico, l’album ( usando, a volte, degli spunti autobiografici anche divertenti ) sembra seguire un percorso non molto lineare, ma che non ammette, comunque, distrazioni.

Prima della scaletta, la meravigliosa “Noi Non Ci Saremo” che, però, sembra possedere un prologo: “L’Atomica Cinese”, messa tre canzoni più avanti. Al secondo posto abbiamo “In Morte Di S.F.”. Sembra, apparentemente, un brano sconosciuto e nuovo…e lo era, ma avrà modo di farsi conoscere col tempo, poiché muterà, nel 1968, in “Canzone Per Un’Amica”. Ebbene sì, Guccini è stato anche l’autore di quell’eccellente monumento alla memoria di una povera ragazza morta in un incidente stradale. Dopo è la volta di “Venerdì Santo”, l’unica canzone d’amore presente nel cd in cui la storia d’amore del cantautore viene messa in parallelo con la morte di Cristo. Di seguito, la commovente “La Canzone Del Bambino Nel Vento – Auschwitz” ( brano che esorta gli uomini a non uccidersi più l’un l’altro ) e la divertente “Talkin’ Milano” ( un talk blues che mette a confronto l’America e l’Italia in una gita a Milano ). Ed ecco arrivare il tributo a Bob Dylan: “Statale 17” ( Highway 61 Revisited ), in cui Guccini racconta di come, pur facendo l’autostop, non riesce a farsi dare un passaggio per raggiungere un’ipotetica ragazza, così è costretto a camminare fino allo sfinimento. Ancor meglio i brani “Il 3 Dicembre Del 39” ( storia di un “voltafaccia politico” che percorre le epoche più importanti di quegli ultimi anni ) e “Il Sociale E L’Antisociale” (unione di due canzoni ), decisamente il migliore del disco, ma quello che Guccini, in passato, ebbe più paura di cantare. Meno bella, ma artisticamente stupenda, “La Ballata Degli Annegati” che fa il filo ai poeti francesi.

L’album non vendette molte copie ( forse anche per il sound un po’ piatto ), ma permise a Francesco, con l’aiuto di un programma diretto da Giorgio Gaber e Caterina Caselli ( Diamoci Del Tu ), di andare in televisione e farsi conoscere dal grande pubblico. Comunque, la notorietà arriverà negli anni successivi, grazie a continui successi non poco memorabili ( per esempio: La Locomotiva ).

La forza dell’arte difficilmente muore. Il disco sarà anche vecchio, ma, come è giusto che sia, può tornare sempre utile per le future generazioni. “Folk Beat N.1” non è solo un album, ma un quadro di un’ Italia semplice che vuole raccontare le sue piccole storie attraverso il tempo. Fa riflettere vedere come gli anni passino, ma il paese rimanga sempre lo stesso.