Hide Vincent “Hide Vincent”, recensione

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Per circa 30 anni ho dovuto difendermi. Il mio anticonvenzionale aspetto esteriore, infatti, per decenni è stato attaccato da più direzioni. Ho dovuto resistere con i denti all’omologazione, dichiarando più e più volte il più classico “Ma l’abito non fa il monaco”.

Oggi però mi rendo conto come tutto sia relativo. Osservando l’artwork ed il packaging di Hide Vincent, infatti, anche io sono cascato nell’errore e ho iniziato a misurare il disco dalla copertina. Proprio dalla sua veste e dalla sua esteriorità ho iniziato a giudicare…e non sbagliavo!

L’elegante digipack immerso in un gentile giallo tenue, racconta, sin dalla surrealistica immagine portante, la delicatezza dei tratti sonori che si celano dietro ad un booklet ricco di metafore artistiche. Un’opera grafica che, grazie a Simona Fredella, riesce a definire i soavi contorni di un disco che porta con sé un alternativo sapore d’oltreoceano.

Voce e chitarra che ammalia sin dalle prime note scarne di Father, piacevolmente toccate dal violoncello di Sharon Viola, perfetta nel definire la via per un climax emotivo che si posa delicatamente sul pizzicato della sei corde, qui in grado di donare le emozioni di un mondo splendidamente illustrato dal booklet, che cresce e matura da radici forti, visionarie e creative.

Una sentita sensazione melanconica che in Blood houses ricrea atmosfere d’oltreoceano mostrando un’emozionale approccio Garden state. Le dita inseguono sensazioni indie attraverso gli sguardi spensierati di Think i did today e sul velato spitrito popular di White sun, traccia dalle marcate impronte Counting crows.

Si mutano poi i cromatismi con Black poetry, poetica , metaforica e visionaria traccia posta su aperture emozionali in grado di traghettare un accorto ascolto verso Crave, in cui lo scarnificato drum set di Riccardo Iannaccione disegna deliziose spezie evocative da ascoltare con la tranquillità nel cuore e la commozione negli occhi.

Se poi con Only knew that you were thirsty sembra essere di fronte ad un piccolo passo indietro, con la dolcezza di delicate si offre agli astanti un itinerario osservativo e sognante, da cui sarà difficile uscire. Il disco, senza dubbio annoverabile tra le migliori releases di questo mese, volge con accortezza a mostrare le venature alt-folk di Time before the end sino al terminale Yellows lights and the seas dalle cui note sorgono sentori The band, intercalati tra alternative anni ’90 e nuova autorialità.

Un disco che deve, dovrà e dovrebbe far parlare di sé quanto un film indipendente che trova le luci di una meritata ribalta.