Hocus Pocus – 16 Pieces recensione.

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Alcuni dischi riescono a trasportare in dimensioni diverse da quella terrena solo dopo pochi secondi d’ascolto. Altri riescono nell’impresa di far passare all’ascoltatore un’ora di assoluta spensieratezza. Il problema è che spesso questi due casi coincidono con suoni volutamente “facili”, pragmaticamente ricercati per piacere al pubblico mettendo quindi da parte ogni velleità di ricerca sonora o semplicemente di passione per la musica. Quando però l’intento riesce a perfezione incastrando nella formula la genuinità della composizione, il risultato è assolutamente scoppiettante.

Se questa combinazione non è facile, nell’Hip-Hop, musica in cui sperimentazione e deriva commerciale sono divisi da un filo quasi trasparente, la riuscita sarebbe da celebrare con dei fuochi d’artificio. Senza nulla togliere a chi saluta come manna dal cielo le creazioni pseudo-alternative stile Outkast, la sensazione di trovarsi in un fastidioso limbo tra rap slavato e scialbo pop è in costante agguato. Fortunatamente ci sono rare eccezioni: una di queste viene dalla Francia e si chiama Hocus Pocus.

Per chi non avesse sufficiente dimistichezza con l’Hip-Hop francese, è utile sapere che si tratta largamente del movimento più avanzato in Europa, secondo nel mondo solo a quello statunitense, del quale ha molte caratteristiche in comune. Ad esempio l’esistenza delle “banlieue” parigine, per certi versi assimilabili ai ghetti newyorkesi, o la presenza massiccia di comunità “non-bianche” in una città come Marsiglia, hanno fatto sì che una cultura di rottura come l’Hip-Hop abbia preso piede presto, garantendo quindi la presenza di una “old school” vera e proprio con nomi ormai di diritto nel gotha della storia della musica (Assassin, Supreme NTM, IAM, DJ Cut Killer e tanti altri). Purtroppo dagli USA è arrivata anche l’inevitabile commercializzazione e negli ultimi quello che era un livello medio straordinario ha visto una brusca virata verso suoni soft e troppi falsi gangsterismi.
Detto questo, continua ad esistere un panorama straordinariamente vario, dove a fianco del rapper prettamente tecnico c’è quello politico, dopo quello “ghetto” c’è quello con sonorità jazz e…tra tutte queste tendenze ci sono gli Hocus Pocus. Lontani dalle metropoli prima citate, il gruppo proviene dalla nordica Nantes e propone un sound assolutamente unico, con influenze anni 70 che come per magia si incastrano a perfezione con versi precisi ed incisivi. Il merito di questo è dovuto al fatto che oltre al rapper/produttore 20Syl e al dee-jay Greem, gli Hocus Pocus sono una vera e propria band con musicisti di ottima fattura, senza trascurare nulla: batterie, percussioni, piano, organo hammond, fiati, contrabasso e persino vibrafono. Non a caso “16 Pieces” è un album che sarebbe ottimo anche se fosse solo strumentale.

Eppure la magia sta proprio nell’insieme e lo si capisce subito dal primo pezzo, l’irresistibile “Beautiful Losers”, laddove il cantato femminile affianca i rap di 20Syl senza mai sembrare fuori posto ed il ritornello accompagnato da trombe ed organo dà il là a scratch perfetti. Incredibile, da ascoltare anche venti volte di fila senza mai stancarsi. Sembra quasi strano che dopo questo fuoco iniziale, il secondo pezzo sia un malinconico rap dedicato a Michael Jackson. Invece “25/06” è praticamente una ballad jazz in cui i rap sono sentiti ed intelligenti nei paralleli fatti tra vita (e morte) del re del pop e considerazioni sociali contemporanee. E’ invece un coro prettamente funky quello che trascina “A Mi-Chemin”, che si fregia di un verso del sempre maestoso Akhenaton a completare un pezzo ben fatto che impiegherà dai tre ai quattro secondi a riempire le pista. Stesso destino per la divertente “Putain de Melodie”, rap veloce, organo in vista e riff che entra in testa così come i coretti femminili tra un verso e l’altro.
Rilassata e riflessiva senza risultare è la soaver “Papa?” nella quale 20Syl si pone in maniera seria ed ironica di fronte all’ipotesi-paternità, mostrando tutto il suo flow su una base apparentemente semplice ma in realtà ricca di intarsi strumentali di grande interesse, soprattutto nel modo in cui scratch e strumenti dialogano scandendo i tempi del ritmo. “Signes de Temps” è un pezzo più classicamente costruito, arricchito dagli ottimi versi (in inglese) degli ospiti Stro The 89th Key e Mr. J mentre “Equilibre” vede la partecipazione del sempre poetico Oxmo Puccino per i tre momenti più profondi ed aggressivi dell’album.

Superata la metà, l’album raggiunge il suo apice “groove” con pezzi come “Marc”, dominato da atmosfere soul-jazz alla Roy Ayers, del quale viene quasi replicato il sound di vibrafono ed i vocals quasi sussurrati accompagnano alla perfezione piano, fiati (tra cui un incisivo flauto) e scratch. Per non parlare di “I Wanna Know”, la cui basa sembra essere estrapolata da “Headhunters” di Herbie Hancock, intossicante loop di basso a guidare una grandiosa funky jam senza trascurare liriche apparentemente ironiche ma in realtà molto taglienti. Un pezzo clamoroso. E non finisce qui perché poi c’è l’escalation musicale e lirica di “Wo:oo”, l’omaggio alla musica “Portrait”, con il suo ottimo lavoro di sample e scratch inserito tra spunti di puro jazz e la grande voce soul di Elodie Rama, il tocco old school di “Le Majeur qui me Démange” che permette di apprezzare a pieno il flow di 20Syl. E quando si arriva all’ultimo pezzo, il quasi acustico “100 Grammes de Peur”, non ci si rende conto che è passata quasi un’ora e sembra che si stia fluttuando in aria e i pensieri sembrano totalmente dimenticati. Ed allora ci si pensa e ci si accorge che si, esistono ancora album che fanno viaggiare, che ci fanno stare bene e ci fanno entrare a contatto con la bellezza della musica, perché “16 Pieces” ha la forza di suonare semplice senza esserlo, di sembrare orecchiabile, ma solo a chi ascolta superficialmente.

Ma questa volta non ci sono scuse: si può ascoltare concentrati o distratti, questo disco trascinerà e saprà catturare l’attenzione di chi adora la musica fatta bene, con talento e passione. Tutto questo da una “Hip-Hop Band” : Stetasonic e Roots possono essere fieri.