InSpiral “Onyr”, recensione

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Desertico ed onirico. Una fata morgana di un mondo interposto tra stoner, psichedelica e prog. Ecco a voi il secondo full lenght degli InSpiral, band ferrarese dedita a sonorità trasversali in grado di avvicinare gli Opeth a forme espressive tipicamente alternative.

Il disco, uscito in vinile da pochi giorni, si offre attraverso le armoniche, ma al contempo inquiete linee grafiche di una cover art interessante che, pur lasciando in sé il sapore di un finale aperto, riesce a modellare le diverse correnti espressive del nuovo disco, attraverso una ardita mescolanza metaforica di elementi divergenti quanto le strutture liriche del platter.
Sette brani intensi, la cui diluita durata sembra voler accompagnare l’ascoltatore nei 40 abbondati minuti di un cammino narrativo, in grado di valicare la banalità, per porsi con i propri versi su di un piano multi espressivo.

A dare inizio al viatico musicale sono le ponderate e sporche note di Akku che, nonostante un eccessiva focalizzazione vocale, sembra voler immediatamente raccogliere echi e parametri espressivi legati a stilemi passatisti e riferimenti saldi. Il clearing, mescolato a strutture armoniche e ai graffi in background, sorprende anche grazie a riff, back voice ed elementi electro, atti a decurtare dalla realtà una futuristica e fagocitante inquietudine. La traccia iniziale sembra voler danzare su di una concettualità ragionata e curata nei suoi micro dettagli, riuscendo a restituire significati allegorici dalle atmosfere ricavate da partiture pronte a minimalizzarsi ( Sinking in the air) ed addolcirsi mediante sguardi popular che schiudono Sirene nuvolari. La band, infatti, lascia la genuinità grezza e diretta per concedersi momenti piacevolmente chatchy, interposti tra sensazioni desertiche libere e diluite.

Se poi con Hollow Stone va a delinearsi in maniera marcata la direttiva espressiva del quintetto, è con la suite Enemy che vengono a palesarsi gli arditi ricami delle note bianco nere, passanti socchiusi di armonie osservative e calmieranti. Una magia leggera, pronta a condurre l’ascoltatore verso passaggi climatici che, grazie a guitar solo diretti e immediati, porgono note tra le quali perdersi.

A chiudere le spirali dell’opera ben congeniata è la coverizzazione impavida di Welcome to the machine, che presentandosi in maniera contemplativa ed osservate, restituisce un piacevole rimando ad un sacro passato, qui parzialmente scarnificato di sintetizzatori ed aurea acustica. Un rimando narrativo alla società industriale, in cui approcci sonori coraggiosi si delineano tra gli stravolgimenti e gli orpelli innovativi, pronti a porsi al servizio di un capolavoro senza tempo.

Insomma… un disco da ascoltare con l’attenzione, attraverso il quale discendere verso un futuro immaginifico e a tratti surreale.