L. V. Beethoven – Concerto per violino ed orchestra in re maggiore op. 61.

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Beethoven scrisse il Concerto per violino e orchestra nel 1806, dedicandolo al suo amico dei tempi di Bonn Stephan Breuning. In realtà la vera ragione alla base della composizione del concerto fu la presenza a Vienna del violinista Clement, che appunto eseguì il concerto per la prima volta il 23 dicembre 1806.

Il concerto fu scritto tra la Quinta e la Sesta Sinfonia, praticamente in contemporanea con il Quarto Concerto per pianoforte e nei paraggi del Fidelio e dell’Appassionata Op. 57. Il concerto non infiammò il pubblico nelle prime esecuzioni e lo stesso Clement non ne apparve entusiasta. Nei confronti di Clement Beethoven nutriva una grandissima ammirazione, ma il violinista ridusse la pagina a mero pretesto per mettere in bella mostra le sue innegabili doti virtuosistiche, interrompendone di continuo l’esecuzione per improvvisare con il violino alla rovescia. Assai apprezzato all’epoca, il virtuosismo funambolico di Clement finì però col far passare in secondo piano le qualità artistiche del Concerto di Beethoven, che presto venne così dimenticato. Occorre aspettare l’ esecuzione di Joachim con Mendelsohnn nel 1844, ripresa dieci anni dopo con la collaborazione di Robert Schumann perché il concerto abbia il riconoscimento che merita.

Il concerto, in linea col Quarto Concerto per pianoforte e Orchestra, persegue un ideale di intimismo espressivo che la natura eminentemente vocalistica del violino sembra evocare in senso lirico. Questo carattere, già presente nel primo movimento, si accentua nel secondo dove alla voce del violino di affiancano quelle dei corni, del clarinetto e del fagotto in una sequenza di dialoghi pieni d’incanti di musica e misteriosa poesia (Carli Ballola) . Il larghetto, che sembra anticipare le pagine empiree e contemplative dell’ultimo Beethoven, sfocia in un allegro e popolaresco Rondò in tono di ballata.

E’ una composizione che condivide con altre dell’epoca – terzo, quarto e quinto Concerto per pianoforte ed orchestra – identica struttura: si legge una certa tendenza ad imporre la grande presenza sinfonica ma anche un disegno formale che non presenta il dialogo tra solista e orchestra da subito come un elemento già formato bensì ne traccia un’evoluzione.

Il violino – come altrove il pianoforte – non appare subito protagonista, al contrario la sua presenza avanza con l’avanzare delle battute, muove dal commento fino a raggiungere l’enfatico, esaltante protagonismo.

Esistono molte interpretazioni sul messaggio che Beethoven avrebbe voluto dare attraverso questo concerto, ma credo alla fine che quello che rimanga siano le emozioni che l’ascolto di questa musica genera in noi: per me è un brano dal respiro universale, assoluto, al di fuori di spazio e tempo, musica pura. Un luogo in cui rifugiarsi nei momenti di dolore e buio, così come di gioia e luce; un approdo sicuro nel profondo del nostro spirito.

Nelle righe seguenti descriverò tre edizioni del Concerto Op 61 assolutamente imperdibili. Almeno una di esse deve essere presente in una discoteca che si rispetti. Sono tutte edizioni datate, ma dal valore interpretativo inestimabile e, a mio parere, insuperato.
Mi riferisco a Oistrakh-Cluytens (Ed. EMI), Menhuin-Furtwangler (Ed. EMI) e Stern-Baremboim (Ed. SONY). Sono peraltro tutte edizioni a basso prezzo e, a parte la prima, abbastanza facilmente reperibili.
Prima di analizzarle in dettaglio, alcuni dati di riferimento che torneranno utili durante la lettura del seguito dell’articolo.

Esecutori – violinista – direttore Anno 1° tempo 2° tempo 3° tempo
Oistrakh – Cluytens 1959 25:17 9:41 10:22
Menhuin – Furtwangler 1953 24:02 9:42 10:24
Stern – Baremboim 1971 24:13 9:12 9:14

Oistrakh – Cluytens

L’introduzione del primo tempo è molto bella con un’orchestra dal suono pieno, solido e dolce. L’entrata del violino di Oistrakh è inconfondibile: Oistrakh è lirico, romantico, in una parola, russo. Il suo tocco e sempre morbido ed il suono “setoso”.

L’integrazione con l’Orchestra è perfetta.

Il violino di Oistrakh canta in modo prodigioso, è espressivo, il timbro è caldo e dolce. L’impressione che ne deriva è di un approccio romantico, passionale, quasi epico, specialmente nel direttore e nell’orchestra.

Durante l’assolo di violino l’accompagnamento di violoncelli e contrabbassi è molto bello; nella cadenza, si noti, oltre alla tecnica, l’espressività: è come se il violino parlasse. Si ascolti attentamente quando nel finale dell’assolo viene ripreso il tema principale: non ci sono parole per descrivere questo momento.

Il secondo movimento si apre in modo solenne con splendidi violoncelli. Dolcissimo e lirico il suono del violino sorretto mirabilmente dall’orchestra: non saprei se sono più affascinanti gli archi dell’orchestra o il violino di Oistrakh, è una bella sfida. Il tono è sempre nobilmente romantico e lirico; i tempi sono tendenzialmente lenti, dilatati.

Col terzo movimento il clima si fa più allegro, vivo, pur mantenendo una certa aria di nobiltà; a me richiama per certi aspetti la sesta sinfonia. Qui prevale la tecnica, il virtuosismo, anche se non sono mai fine a se stessi. Ci sono anche momenti di intenso sentimento, sottolineati magistralmente da Oistrakh. Ecco, in Oistrakh il virtuosismo non è mai fine a se stesso, ma è sempre funzionale all’intento di dare corretta espressione alla musica suonata.
Il concerto Op. 61 è un concerto in cui il violino non è antagonista dell’orchestra, ma quasi la sua voce più autorevole, con Oistrakh che esalta le doti di lirismo e le capacità espressive dello strumento.
La registrazione EMI è molto bella nonostante l’età.

Menhuin – Furtwangler

E’ una strana coppia, questa, un violinista ebreo che suona col maggior direttore della Germania nazista, e si presta a tante considerazioni. Personalmente credo che il loro passato di sofferenza giochi un ruolo fondamentale nella intensità e nobiltà con cui affrontano il concerto: è sicuramente la versione più sofferta ed al contempo più “eroica” delle tre; anche quella più vicina alla fine della seconda guerra mondiale.
La registrazione è ovviamente datata e non si può pretendere molto, ma è un aspetto di cui ci si scorda subito.

L’impostazione appare immediatamente diversa: l’orchestra è più virile, possente, insieme al suo direttore affronta il concerto con tempi più stretti, con accento più drammatico, direi epico. Sono i Berliner Philharmoniker e si sente!

L’entrata del violino è quasi titubante. Il suono è un po stridulo. Meno dolce che in Oistrakh, ma estremamente romantico, assecondando in modo egregio lo spirito con cui Furtwangler sembra affrontare il pezzo. L’impressione che ne ho è di un brano sinfonico con violino solo più che di un concerto per violino ed orchestra. I contrasti dinamici sono maggiori che in Cluytens; il pezzo è interiorizzato, vissuto, suonato prima per se stessi che non per gli ascoltatori, e questo appare evidente in Menhuin. Siamo molto vicini alla fine della seconda guerra mondiale e parte del dolore che ha causato si trasferisce nella musica, la impregna fin nel profondo, ma la fa diventare anche il mezzo con cui esprimere una speranza in un futuro migliore di fratellanza: cosa meglio della musica di Beethoven avrebbe potuto esprimere questo messaggio.
Per inciso, mi viene alla mente Baremboim che ha tentato qualcosa di simile ai giorni nostri con la West-Eastern Divan Orchestra.

Anche il secondo movimento è affrontato da Furtwamgler con piglio direi “sbrigativo”, senza fronzoli. Qui si fa più netta la separazione fra orchestra e solista, che dialoga con la prima. L’interpretazione, mano a mano che il movimento procede, da “sbrigativa” diventa sempre più intensa, fino a diventare, durante l’assolo del violino sorretto dal pizzicato dell’orchestra, religiosa, magica; i tempi si dilatano e la musica si “allarga” assumendo un respiro cosmico, universale, assoluto. Il violino è protagonista assoluto.

Col terzo tempo torniamo ad una interpretazione vigorosa; rispetto al primo movimento c’è un maggior equilibrio tra solista ed orchestra. Ci sono momenti malinconici di assoluto lirismo e momenti rapsodici in un insieme in cui prevale eroismo e intensità.
E’ un modo di suonare a cui non siamo più abituati, forse un po’ forzato, forse troppo “personale”, ma sicuramente più vivo delle perfette ma asettiche esecuzioni attuali. In questa registrazione si avverte chiaramente l’incontro di un grande compositore con due grandi esecutori e ciò che ne scaturisce porta i segni indelebili di tutti e tre.

Baremboim – Stern

Mi verrebbe subito da dire giovane e vecchio. Spesso Baremboim ha accompagnato solisti molti più vecchi di lui (nei concerti per pianoforte e orchestra sempre di Beethoven Rubinstein). Devo dire che questo connubio si avverte: la maturità insieme all’energia giovanile. Il concert è presentato dalla Sony in una collana a basso prezzo insieme al concerto per violino di Ciaikovsky, un’altra gemma.

Immediatamente, dall’inizio del primo movimento, si avverte una impostazione meno drammatica, più solare e fluida che non in Furtwangler – Menhuin, ma non per questo meno energica e passionale. I tempi sono tendenzialmente più stretti che non nelle altre esecuzioni. Bellissima l’entrata di Stern, lirico e sognante.

Anche in questa esecuzione c’è una assoluta unità d’intenti tra orchestra e solista: si provano gioia ed entusiasmo nell’ascoltarla. Probabilmente sono la stessa gioia ed entusiasmo che provavano gli esecutori durante la registrazione. Baremboim era giovane.
Come sonorità il violino di Stern è un po’ a metà strada tra la setosità di Oistrakh ed il suono più sottile di Menhuin: in alcuni passaggi l’interpretazione di Stern è quasi languida; l’assolo è splendido e magico l’attimo in cui l’orchestra riprende l’accompagnamento per prepararsi al finale di tempo.

Il secondo movimento si apre con suono maestoso, commovente, solenne. La musica si fa eterea richiamando l’Adagio dolce e cantabile della Nona Sinfonia. Ecco, dolce, etereo, mistico sono gli aggettivi che mi vengono alla mente ascoltando questa esecuzione. I tempi sono più veloci, ma Baremboim non dà l’impressione di correre. Magico l’assolo di Stern accompagnato dal pizzicato dell’orchestra: non ci sono parole per descrivere Stern, è imperativo ascoltarlo.

Il terzo tempo riprende giocoso, in forma di ballata: l’interpretazione è leggera, allegra, vivace. Qui la diversità dei tempi con le altre interpretazioni si nota, verrebbe voglia di ballare, cullati dal fluire senza soluzione di continuità della musica.

Una grandissima esecuzione.

Del concerto Op. 61 esistono anche altre grandi interpretazioni, per esempio Giulini – Perlman, Karajan – Mutter ecc.. Però, tra quelle che conosco nessuna riesce a raggiungere la perfezione delle tre che ho elencato sopra; esse, per motivi diversi, sono perfette, magiche. Andrebbero conosciute tutte e tre perché non sono ridondanti, ma affrontano il concerto da prospettive diverse e fra loro complementari.

Buon ascolto.