Last of the Blacksmiths

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L’Ultimo dei Maniscalchi – nome bizzarro ma evocativo per un gruppo – è in realtà una triplice citazione con cui questa neonata band di San Francisco ha deciso di dichiarare e riassumere le proprie influenze musicali: Last of the Blacksmiths è il titolo di una canzone di The Band, Black è la musica nera degli anni ’60 che questi ragazzi amano e Smiths … beh, serve che dica chi sono gli Smiths?

Il gruppo ha tratto quindi ispirazione da grandi momenti di musica sparsi lungo tre decenni per iniziare la propria carriera, la hanno iniziata con un album che è grande e sorprendente per diversi motivi.

Tanto per cominciare l’album è autoprodotto, registrato in presa diretta su macchine prese in prestito, ma ad ascoltarlo proprio non lo direste: per questo verso ricordano proprio i “Basement tapes” di uno dei loro modelli.

Per quanto le influenze di Last of the Blacksmiths siano – come detto – molteplici, come genere musicale certo si muove lungo confini di Americana, per le musiche ma soprattutto per quanto riguarda i testi. Un altro motivo d’interesse riguarda appunto questi ultimi: tre dei dodici brani sono scritti da Rufus Wanta, nonno di uno dei componenti del gruppo, che c’è di strano? che sono stati scritti settant’anni fa e non per essere musicati; Nathan Wanta rovistando tra vecchie carte di famiglia li ha scoperti e ha trovato in loro una freschezza ed attualità uniche; attualità della tradizione, perciò quintessenza di Americana.

Tutte le canzoni – dodici – si lasciano ascoltare con piacere ma almeno quattro di esse fanno sì che il disco torni a girare di frequente nel lettore: la traccia d’apertura “Knowing me” e quella che la segue “Columbus stockade blues” un blues da manuale – brano tradizionale in un arrangiamento nuovo di zecca – che forse avrebbe beneficiato della mano di un produttore d’esperienza che ne esaltasse al massimo la bellezza. A mio avviso il gioiello dell’album è “In my hands” – traccia 7, uno dei brani firmati da nonno Rufus – i primi accordi sono introdotti dall’armonica seguita a breve da una chitarra acustica – poi senza invadere lo spazio del canto si uniranno banjo e violino su questa ballata senza tempo che inizia così: “trattengo la luce nelle mie mani. Curerò la tua vista con le mie mani. Nelle mie mani ho il potere di sanare. Con le mie mani ruberò i tuoi peccati. La tua vita sarà piena di dubbi e paure, tieni duro figlio mio, perché le mie mani ti sono vicine.”

In definitiva siamo dinanzi a un disco d’esordio che mostra una maturità di stile spesso assente in tanti musici generici – come certi medici, capaci di tutto ma buoni a niente – oggi in circolazione.

Il disco al momento in cui scrivo ancora non è disponibile nei negozi, all’uscita era acquistabile solo via PayPal tramite il sito di Last of the Blacksmiths – sì, dall’artista al pubblico senza intermediari – ma il tam tam delle buone recensioni via internet ha fatto sì che diversi siti lo abbiano ormai in catalogo, chi fosse stato incuriosito da queste mie righe segua questo link

http://www.lastoftheblacksmiths.com/L2/buy.html

e con 14 USD – circa 12 euro comprensivi della spedizione – compri l’album direttamente da Nathan Wanta, ne vale la pena!