Luc Orient “Lavie à grand vitesse”, recensione

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Sin da piccolo ho avuto la fortuna di vivere tra centinaia di fumetti, grazie ad un padre pittore e collezionista attento di strips. Proprio grazie a quell’ infanzia tra i ballon, appena ho scartato la plastica di La vie à grand vitesse, mi è tornato alla mente il viso d’angelo di Luc Orient, antesignano di Natan Never e cugino sottovalutato di Flash Gordon. Forse in cuor mio, complice il titolo francofono, ho pensato di essere di fronte a qualcosa che potesse essere definito attorno al comic style, ma la strada ipotizzata inizialmente si è venuta a bloccare sin da subito a seguito delle sensazioni estetiche della corver art di Antonio Sofianopulo, magnifico artista contemporaneo. Infatti l’autore triestino nulla ha a che fare con il Luc Orient anni sessanta; infatti, con la sua pittura magrittiana, incentra il suo microcosmo sulla concettualità della natura, in cui gli sguardi animali dipingono metafore velate di un mondo ambiguo e posato, proprio come la musica proposta da Luc Orient, realtà contemporanea di una fervente Trieste.

Una storia che parte dalle ombre post punk-new wave dei Revolver, da cui nel 1981 Alessandro Corda reinventa i Luc Orient assieme alla chitarra di Rrok Prennushi e alla voce di Piero Pieri. Proprio Pieri e Prennushi rappresentano oggi l’anima del redivivo progetto, dedito ad viatico tra rock cantautoriale dalle sfumatura nere, sviluppate su cortecce acustiche, funk e elettronic.

La nuova opera promossa da Lademoto Records rappresenta un’interessante sinergia artistica tra Soul combo Production e Luc Orient, da cui emergono impegno e poeticità da un lato e ragionato rock dall’altro, nel tentativo di generare quello che loro stessi definiscono una musica per teste danzanti.

Le atmosfere del disco si dipanano in un territorio musicale vasto, ma non sempre convincente; infatti talvolta la sensazione che traspare dalle singole tracce sembra essere quella di non aver ancora trovato la direzione adeguata per convogliare le singole idee artistiche che la band si propone di generare. Spesso il buon groove appare un palliativo rispetto all’anima strutturale delle composizioni, che non sempre conquistano.

A battezzare questa Vita ad alta velocità è il ritmo retrò di Oui Miss Bloom, i cui festanti fiati ci regalano spensieratezza e convincimento al servizio di un approccio vocale non sempre limpido. L’opera della band mostra in itinere una continua violazione di territori musicali, tanto da offrire un persistente cambio direzionale, proprio come dimostra Champagne, traccia in cui il prog anni ’70 si confonde in un ottimo solo di tromba e in un’inaspettata esondazione rap. Le corde si assestano poi nel rock ipnotico di Requiem e nella malinconia di Mi Dva, la cui esposizione teatrale si ricollega alle frasi spezzate di Amore, nessun dolore, in cui le tastiere accarezzano note di background pronte a lasciar spazio a sentori funky.

Infine appaiono interessanti sia il proto reggae della titletrack, sia il passo cadenzato di L’infanzia di Ivan, che con il suo buon apporto alle pelli, si presenta tra i brani migliori di un disco ancorato alle buone idee di fondo, ma (forse) troppo legate, volenti o nolenti, ad una concezione passatista dell’arte.