Modern Times

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Ascoltare il nuovo album di Bob Dylan lo scorso 29 agosto ha dato senso a diverse sensazioni che avevo accumulato nelle 48 ore precedenti prima guardando Cars, il nuovo film di John Lasseter , poi seguendo una partita di baseball e infine leggendo un articolo sul New York Times, ma andiamo per ordine. Cars è un’ode alla Route 66 e all’America che la percorreva, una nazione a dimensione umana figlia delle politiche sociali di Franklin Delano Roosevelt; la partita di baseball più che per il gioco mi aveva colpito per la cronaca che l’accompagnava, la voce era quella del leggendario Vin Scully – ormai quasi ottantenne – che commenta le partite dei Dodgers proprio dagli anni ‘50 che il film rimpiange; l’articolo letto sul New York Times del lunedì invece riferiva che dal rapporto annuale sull’economia americana risulta che il potere d’acquisto dei salari é al livello più basso mai registrato da quando il governo ha iniziato a rilevare questo dato statistico nel 1947.

Nel pomeriggio del martedì ho finalmente ascoltato Modern Times e mi sono lentamente reso conto che nel nuovo album di Bob Dylan ci sono il film di Lasseter, la voce di Scully, l’articolo del New York Times e gli Stati Uniti d’America da cima a fondo: come ogni grande artista Dylan è la voce del suo tempo.

La raccolta di canzoni a firma Bob Dylan intitolata Tempi Moderni ha visto la luce settanta anni dopo l’omonimo film di Charles Chaplin, così come il film rifiutava la modernità scegliendo il muto ormai soppiantato dal sonoro, così il disco riafferma senza esitazioni la forza della musica popolare figlia della tradizione americana propria degli anni ‘30 e ‘40 del Novecento: dal folk al blues e su fino a Bing Crosby.

La tradizione intesa come consapevolezza del passato e ispirazione per il futuro, Dylan si immerge in essa e porta con sé nel viaggio tutte le sue contraddizioni che sono anche le nostre e del tempo che viviamo; contraddizione dell’artista legato da contratto a una multinazionale e che ha prestato faccia e musica alla vendita di biancheria intima ma che ha ancora la forza di dare voce ai diseredati lasciati a morire a New Orleans quando dà nuova vita a un classico di Memphis Minnie – unica donna tra i grandi del blues delle origini – ma anche quando canta frasi come “The buying power of the proletariat has gone down, money is gettin’ shallow and weak”.

Se è vero che Dylan fu la Voce di una Generazione e che marciò con gli Afro-Americani nella lotta per i diritti civili è altresì vero che queste parole forti stonano in bocca all’uomo che poco tempo fa ha dichiarato che fosse giovane oggi non perderebbe tempo con le canzoni ma si dedicherebbe a qualcosa di davvero importante come la fisica, ma questa stonatura è appropriata e anzi necessaria nell’uomo disilluso che è Dylan, protagonista e vittima del suo tempo che lo ha ormai eletto suo poeta ma che al poeta nulla concede, nessun ruolo salvifico ma solo fama e diritti d’autore. Ciononostante Dylan continua a mettere in scena la sua arte, disco nuovo e centinaia di concerti all’anno, mister Zimmerman ha deciso di portare per sempre la maschera che il suo tempo gli ha dato, una maschera che affonda le sue radici nel tempo passato come la splendida “Nettie Moore” – brano popolare dell’Ottocento qui rivisitato brillantemente – ma anche come il più recente alter ego di Dylan, Jack Frost, produttore dell’album come già cinque anni fa per Love & Theft, l’elfo Jack Frost – figura che ben si addice al nostro protagonista – signore dell’inverno, stagione assai significativa per un uomo cresciuto in Minnesota.

Come tutti i grandi artisti popolari, come ogni grande trovatore Bob Dylan ha sempre preso a prestito una frase qui e un riff là perché la sua abilità – come quella di un grande cuoco – sta nel conoscere gli ingredienti giusti e di saperli combinare con sapienza: dare vita a un’opera nuova rinnovando la tradizione. Dylan lo ha sempre fatto ma agli esordi il pubblico era meno smaliziato e tanti ignoravano il mondo di cui Dylan era invece già padrone, così oggi tanti dilettanti si divertono a elencare dove Dylan ha preso questo e dove Dylan ha preso quest’altro e così affetti da questa peculiare miopia finiscono per ignorare la maestà dell’affresco che hanno davanti agli occhi.

Modern Times di Bob Dylan è disco ambizioso per idea e scopo, un ritorno al passato come via per il futuro; Dylan affascina e diverte, commuove e prende in giro, canta d’amore e di disperazione, musicalmente è a suo agio grazie al supporto di un gruppo di musicisti con cui suona regolarmente dal vivo da tempo e che sa assecondarlo alla perfezione; ai primi ascolti i brani in cui Dylan fa il crooner – cantante confidenziale – possono suscitare diffidenza, ma questo è un film che si svolge negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso e questa figura non poteva mancare, senza dimenticare che Dylan – pur con tutti i limiti della sua voce – ha una capacità di fraseggio senza pari che lo rende più che adeguato al ruolo.

Dinanzi a un disco del genere è arduo indicare come è d’uso i brani migliori, le 10 canzoni hanno tutte ragion d’essere nel quadro dipinto da Dylan ma certo sarà difficile resistere al ritmo di Rollin’ and Tumblin’ o non emozionarsi per il vigore sociale di Workingman’s blues #2 o per la sconsolata visionarietà di Ain’t talkin’ .

Tutto questo senza dimenticare che Modern Times è disco dove l’amore fa spesso capolino, proprio come nel film di Chaplin, dove il piccolo vagabondo alla fine riesce a sfilarsi dalle grinfie di una società opprimente e a svignarsela libero con la sua bella, per Dylan come già per Chaplin l’amore è l‘arma segreta verso la libertà.