Nightglow “We rise”, recensione

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Dopo qualche settimana torniamo tra le mura della Atomic Stuff Promotion e della Logic(il)logic Records, questa volta per l’opera old school dei Nightglove, quintetto italiano dedito ad un interessante sviluppo heavy, che trova radice fondante nella seconda metà degli anni ’80.

La band, attiva dal 2003, ha percorso (inevitabilmente) la via delle coverizzazioni, che li ha portato nel 2007 ad essere riconosciuti dai club Manowar Italia e dall’ Army of immortals come prima official tribute band europea della creatura di Eric Adams. Il sentiero intrapreso dai Nightglove non si è però fossilizzato su di un unico canale, arrivando così a produrre due interessanti Demo che, nonostante i cambi di line up in itinere, hanno fornito le solide basi per il primo vero e proprio full leght We Rise, titolo allegorico che mira all’uscita dall’underground, attraverso un anelato sorgere dagli oscuri abissi del music businness. La stessa cover art, graficamente accattivante, nel suo citazionismo filmico offre un rafforzamento iconografico al concetto di “rise”, che tra i suoi significati nasconde anche le concettualità legate alla risalita, all’ascesa e alla crescita…e a ben ascoltare le otto tracce del debut, possiamo affermare (senza troppe ombre) che la five members line up sta davvero maturando.

Il disco sembra voler affondare le proprie radici in quella mitologica hm golden age, che pare ritornare viva attraverso le impostazioni sonore cercate e volute dal gruppo, pronto a ricadere in maniera razionale in quel magico mondo andato, arrivando a fornire ai defender e agli HMK un disco su cui ragionare e discutere. Un album che a mio avviso troverebbe maggior ragion d’essere su formato vinilico, habitat naturale degli equilibri sonori proposti dai Nightglove, le cui partiture appaiono intercalate tra Heavy, Power ed Epic Metal.

Ad aprire le inferriate sono le urla lacerate della titletrack a cui si uniscono, in qualità di sonorità narranti, prima un battito alle pelli e poi un semplice compendio di note basse, atte ad accogliere tra le proprie braccia ritmiche un graffiante passaggio di chitarra amplificata. La traccia cambia derma attraverso citazioni invitanti, che ci conducono ad una sorta di comorbità sonora, interposta tra il Dream evil di Ronnie James Dio e alcuni cromatismi Manowar.
L’interessante dialogo tra chitarre anni 90, riporta poi alle sbavature di Time load, brano che, nonostante un approccio minimale per un arrangiamento potenzialmente interessante, non riesce né in profondità né potenza a ricreare il suono che le idee sembrano anelare. Le back voice qui non riescono a impreziosire la narrazione e i cambi direzionali della seconda parte, pur offrendo una riparatoria intensità emotiva più accorta e più intensa, non paiono sufficienti a definire il brano tra i più riusciti.

La retta via viene poi ridefinita da Don’t Cry e dal maideniano riff iniziale di Between heaven & Hell , annoverabile tra le track meglio riuscite, grazie forse alla sensazione deja ecu che l’epico incipit in spoken words offre, portandoci alla mente i fasti di Fighting the world. Colori e timbriche particolari si assestano su rimandi thrash & Viking di ottima fattura, ma non sempre supportata a dovere da una post produzione, che solo a tratti riesce a far emergere la potenza del suono.

Il fil rouge prosegue su Dreamland e sull’atto di chiusura End of time, ma emerge in maniera più evidente sulle concessioni armoniche di Shine of life, il cui chorus sembra estratto dalla seconda parte di Keeper of the seven keys. Una particolare struttura sonora che evidenzia ancora una volta come la band, nonostante i paragoni, viva di luce propria che, seppur ancora in fase di maturazione, evita il clonismo fine a se stesso, attraverso buona tecnica esecutiva ed una splendida voce narrante…

A questo punto…non vi resta che comprare il disco e muovere i vostri lunghi capelli con le corna rivolte al cielo.