Niobeth “Silvery Moonsbeans”, recensione

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Arrivano dal territorio spagnolo in cui las manchegas ritma la passeggiata della libertà e dove la Vergine delle pianure offre il suo essere all’antico nome Al Basit. Proprio da qui partono le sinodiche e magiche note di un ensemble dedito al mondo power symphonic metal, in cui il lirismo e la liricità dei propri intenti, fertilizza un buon suolo musicale da cui partono influssi ed influenze variegate.

Il quartetto infatti dona alle proprie partiture una serie di riff intriganti, una buona sezione ritmica, una vocalità inusuale e un impulso melodico che forse non sarà troppo adatto per chi come me mastica Luctus e Vulvectomy, ma che può offrire il giusto viatico a chi decide di avvicinarsi a questo genere.

Questo nuovo full lenght probabilmente ottiene più di quanto non cercasse nel suo incipit vitale, riuscendo a sfornare un ottimo livello tecnico esecutivo, originalità discreta e una commistione di arti perfettamente adagiate su di un unico progetto.
Infatti, Sylvery Moonbeans sembra nella sua magicità non poter prescindere dall’artwork di Marta Nael, dalle sessioni fotografiche di FrankCroft, dai colori e dai font utilizzati, nel tentativo di proiettarci all’interno del favolistico mondo di Niobeth.

Ad aprirci le fiabesche pagine del disco è il melodico lirismo di Banished princess, tracciata dalla voce di Itea Benedicto, che incontra il metal basato su di un fondo in cui le chitarre sembrano fagocitare, volenti o nolenti, la parte più ritmica della track. All’inizio un sampler introduce l’ostracismo della cacciata dal regno, tra le cui ombre lievi cambiamenti di direzione offrono una piacevole chiosa finale, in cui una sorta di chorus raggiunge una aurea sinfonica diretta e piacevole.

Se appare poi inevitabile che alcuni clichè del genere emergano dalle testiere, la seconda traccia palesa le forze del symphonic metal, raccontando una storia docile, in cui l’assenza persistente di machismo potrebbe reindirizzare un disco come questo verso un target più femminile. Ma come accadeva ad inizio anni 90 con hair e glam metal, non deve essere assolutamente una concettualità denigratoria, né tantomeno limitante.

Ascoltando inoltre tracce come Eclipse, si percepisce come siano i testi a governare le onde musicali, in cui l’economia della narrazione è al servizio del songwriting, incanalando vocalità ben distribuite come in Whitheread lulluby, annoverabile tra le migliori esposizioni del disco. Riff e groove potenti si mescolano in maniera essenziale con la vocalità di Itea, tra archi e violini che intervengono nella composizione, regalando dolcezza easy listening.

Il viaggio si rinchiude poi nel magico bosco di Sons of the earth e Campeon, in cui sonorità celtico nordiche ammaliano grazie alla perfezione volumetrica, tra pacati incipit (Stolen innocence) e andamenti filmici.
Se poi sembra essere vero che a tratti l’utilizzo del violino finisca per edulcorare in eccesso alcune composizioni, il finire del disco pare perdere verve attraversoì una chiusura che forse avrebbe dovuto vestirsi da ghost track (Solitude). Sadako’s wings of home, suite di quindici minuti, infine peggiora lo sviluppo mantenuto dal quartetto, esplicitando da un alto l’amore della musica classica della band, tra spiriti sinfonici, celtic e prog, ma al contempo traccia un solco sul futuro della band tendendo a deprezzare un album molto interessante nel suo genere.

1. The Banished Princess
2. Eclipse
3. Withered Lullabies
4. Sons of the Earth
5. Campeón
6. Stolen Innocence
7. My Dead Angel
8. I Know That I Know Nothing
9. I Need You to Need Me
10. Sadako’s Wings of Hope
11. Polovtsian Dances
12. Solitude