Obake “Obake”, recensione

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Gli Obake sono una particolare tipologia di Yokai, demoni del folklore giapponese. Letteralmente queste presenze riportano alla concettualità della mutazione e del cambiamento, attraverso strutture paranormali, fatte d’oscurità e irrazionale sviluppo. Al di sotto di questo particolare monicker ritroviamo il duo Eraldo Bernocchi e Massimo Pupillo, che riesce a portare in dote un fertile retroterra cultural musicale, potenziato da una serie di esperienze di grande impatto. Negli Obake ritroverete la musicalità da soundtrack e le ammalianti fioriture sperimentalisti degli Zu, attraverso un monologo indisturbato di sensazioni che ritrovano il suo essere cardinale in brani d’impatto immediato come Szechenyi.

A dar battesimo ad Obake è l’attacco noisystoner di Human Genome Project, il cui scheletrico riff ci accompagna all’interno delle anime inquiete, raccontate dalla voce di Lorenzo Esposito Fornasari, interposta attraverso stesure cupe tra influenze black and doom. Ritmi diluiti e rallentati, dolcemente appesantiti da un ottimo lavoro alle pelli, gestite in maniera pressoché perfetta da Balazs Pandi, talento ungherese capace di attraversare i percorsi tortuosi di una partitura claustrofobica. Le ritmiche del quartetto a tratti sembrano ricordare la Dromomania delle Scimmie, arricchita da stop and go nereggianti e a tratti lugubri, come accade in Dog star ritual, in cui lo spettro macabre si unisce a silenti passaggi progressive e giochi vocali imparentati con un certo tipo di metal growlineggiante. Stupori rumoristici e svaghi desertici sono intrappolati poi all’interno di un contenitore distorto, dentro il quale ritroviamo The end of it all dalle spaziature inusuali, che costringono l’ascoltatore in un orientaleggiante viaggio nel polveroso ignoto, riversato su di uno sperimentante e disturbante sound vicino all’extreme music, tra death e grind, sempre calmierato però da una quattro corde attenta e presente.

In viaggio negli inferi è dapprima addolcito da una lettera musicale ai fantasmi del domani, ma poi subito distolto dalla quiete a causa delle catacombali atmosfere di Ponerology, che con i sui occlusi passaggi appare tra i brani più riusciti di un disco che potrebbe essere di gusto a chi ha seguito in questi anni la follia compositiva di Peter Steel.

La trucidata vocalità lascia trasparire dolore e sofferenza che si acquieta come in una sorta di continuum temporale, prima nell’area filologica di Pierre Teilhard de Chardin e poi nella sterminatrice aurea di Destruction of the tower che, assieme alla chiusura di Grandmother spider, offre il modo migliore per tornare ad un mondo musicale non facile, ma intensamente convincente.

Insomma la Rare noise records regala al suo pubblico un disco da vivere attraverso le immagini ipnagogiche del nostro io, senza confini immaginifici di sorta, ma al contrario trasportata da un andamento così destrutturante tale da introiettare l’ascoltatore accanto alla soffusa linea grafica della work art, in un soffusa e tramontante apprensione d’intenti.

Dunque non vi stupite di nulla… qui troverete movimenti riconducibili a Mick Harris, Mr Patton e a Einheit, in una consecutium temporum perfetta e ben strutturata.