Okland

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Entrare nel mondo degli Okland significa riuscire ad astrarsi dalla realtà per proiettarsi verso una materialità sintetica, in cui vortici onirici ed accoglienti mostrano il lato creativo dell’elettronica.

Un mondo definito da aperture armoniche (e alquanto easy) a cui si arriva attraverso intelaiature ridondanti, ma mai troppo spigolose. Un viaggio che a tratti ci avvicina al Motel di Richard Melville Hall (Celeno) per poi deformare il proprio intento (Màni) verso eleganti impianti sonori, in cui il trio torinese mostra idee portate ai confini liminare di un trip hop onirico ed inquieto (Indra). Da qui si parte per ricercare l’inevitabile sincrasi tra uomo e tecnocrazia, al servizio di un disco, o meglio di un extended played, celato dietro ad una dinamica e futuristica cover art, pronta a modulare l’incontro tra analisi sintetiche e rimandi acustici, mostrando una dicotomia sospesa tra algido freddo e ammaliante calore, metaforicamente disegnato da Drive, in coincidenza della quale gli Oakland perdono la riuscita alienazione in favore di un evitabile cambio di rotta.

Il disco riesce comunque a farsi (uso un termine eccessivo ma chiarificatore) adorare attraverso una ragionata presentazione espressiva, in cui si palesano uomini persi nella quotidiana e ormai fagocitante incomunicabilità.