R, Queens Of The Stone Age

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Con grave e colpevole ritardo parlo di R dei Queens Of The Stone Age. Il disco e’ infatti marchiato 2000, ma dopo averlo ascoltato una volta distrattamente l’ho dimenticato tra i miei cd, forse perche’ all’inizio non mi aveva colpito molto.

Complice un video trasmesso su Mtv qualche sera fa l’ho rimesso nel lettore e Bum! adesso e’ spesso li’ dentro che gira, gira, gira…

I QOTSA fanno parte a pieno titolo di un corrente che viene chiamata generalmente stoner rock, non foss’altro che per questioni “genetiche”: lo stoner e’ una miscela di chitarrone pesanti che strizzano un occhio e spesso anche due al hard & metal scuro e pesante anni ’70 (tipo Black Sabbath o Blue Oyster Cult per intenderci) fondendolo e centrifugandolo con le grezze e distorte melodie del grunge. Questo genere raggruppa una variopinta moltitudine di loschi figuri quali Monster Magnet, Fu Manchu ed altri.

In particolare i QOTSA nascono dalle ceneri del gruppo capostipite dello stoner, i Kyuss. Dopo l’abbandono di John Garcia, voce dei Kyuss, Josh Homme, il chitarrista, prende le redini della situazione e decide di mettersi a cantare i propri pezzi accanto a Nick Olivieri, al basso, altro superstite del gruppo.

Il risultato e’ qualcosa di molto meno metal, merito della voce abbastanza tranquilla e melodica di Homme, di chitarre meno tirate anche se graffianti e di una creativita’ risvegliata che permette di giocare su arrangiamenti un po’ piu’ curati.
R e’ il loro secondo disco, senza contare gli EP, e conferma come effettivamente il linguaggio si sia fatto meno ostico rispetto agli inizi, con una dichiarazione d’amore incondizionata per melodie sghembe ma accattivanti e sottofondi rumorosamente ammiccanti.
Ammetto di averlo sottovalutato all’inizio. Capita certe volte di farsi un’ impressione sbagliata avendo in mente magari altri punti di riferimento (in questo casi i Kyuss). Puo’ essere anche che questo disco non sia cosi’ facile da leggere al primo colpo e necessiti di piu’ di un ascolto, ma, in fine dei conti, canzoni come The lost art of keeping a secret, Monsters in the parasol, Auto Pilot sono dei gioiellini.

Nutrita anche la compagine degli ospiti, a partire da Mark Lanegan alla cui voce e’ affidata interamente In the Fade, Barrett Martin, gia’ batterista degli Screaming Trees, alle percussioni, Mike Johnson, Scott Mayo ed altri.

Per chi vuol farsi un idea di una delle possibili strade dell’alternative americano, senza scavare per forza nell’underground alla ricerca di qualche gruppo misconosciuto, questo e’ un buon disco.