Rainbow Bridge “Dirty Sunday”, recensione

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Nati poco più di 10 anni addietro, i Rainbow Bridge , guidati dall’evidente DNA Hendrixiano, propongono quello che appare come un’istintiva jam session dal sapore analogico.

Registrato live senza sovra incisioni , l’album riesce, sin dalle prime note di Dusty (omen nomen), a destarsi tra le polveri deserte di un mondo perduto , in grado di trainarci in sconfinate visioni filmiche in cui il pattern sonoro del drum set minimale si pone sulla bass line di Fabio Chiarazza per dare spazio vitale alle ridondanze espressive della sei corde.

Il sound, definito da correnti desert, pone il proprio ego su deviazioni heavy blues, disegnato da distorsioni espressive e richiami vintage, ideali per un l’album grezzo e vivo che si racconta attraverso l’arte del wordless mediante coraggiosi cambi direttivi, guitar solo e battenti impianti groove che (ahimè) non trovano la giusta cover art, reale lato debole di un lavoro elitario, deliziosamente scarno e per certi versi magico e passatista.

Proprio da Dirty Sunday, infatti, sembra scaturire una finestra sul passato, qui venato da psichedelia immersa in riffing trainanti e tecniche cadenzate. I giochi sonori su cui si divertono le dita di Giuseppe Jimray Piazzolla offrono rimandi oscuri e lisergici che prendono corpo nella lunga ed evocativa Maharishi suite, magnifica composizione in grado di raccontare alla perfezione l’arte narrativa del trio pugliese, che concede qualche cosa di troppo all’easy listening con Hot Wheels, per poi riprendere la giusta rotta verso la partitura di Rainbow Bridge. La traccia conclusiva, infatti, lascia l’ascoltatore in un travolgente mood da cui palesi suoni Hendrix mostrano stilemi stoner e desert, marchio di fabbrica al servizio di una band da osservare e seguire… soprattutto impresa live.