SOAB “Soabology”, recensione

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Night, dust, collapsing bridges, the wheels swirling and lonely knights … you can “listen” to all this?
The answer is S.O.A.B.

Così si legge nell’official web site del quartetto torinese, votato ad inseguire un’alchimia formulata da ingredienti legati imprescindibilmente all’heavy primordiale e a venature stoner, psychedelic e souther rock. Un cocktail che forse non conquista al primo ascolto ( e questo a mio avviso è un ottimo segnale), ma entra nel cuore pulsante dell’ascoltatore solo dopo alcuni passaggi.
Il disco promosso da Go Down Records si affaccia sul mercato mostrando lunghe suite, che sin dalla prima traccia (Nightwatcher) ci trasportano ai confini del doom e alle attese auree psichedeliche, per poi avvicinarsi al mondo di Peter Steel. Un ritmo ossessivo, inquieto e claustrofobico che sembra nutrirsi di strutture grezze e scomode al servizio di un minutaggio diluito che fornisce nella sua parte terminale un corposo pattern chitarristico limato da un ragionato fade out. Da qui si riparte verso Dust in throath, in cui i sapori iniziali, disegnati su estranianti western style, utilizzano filtri espressivi fino all’atteso arrivo di overlay puliti, non lontani dalla narratività di Sons of anarchy, ambientazione ripresa ulteriormente da Loneliness of broken riders, cruda e stonerizzata.

Il disco, definito da una accogliente ridondanza, ci invita tra le pieghe di un cantato “rochano” pronto a giungere ad un souther rock di stampo classico, attraverso stop and go e leggeri cambi direzionali che riescono a vivere mediante un sottile ma persistente fil rouge.

Il sapore anni ‘90 molto presente in The bridge is bending down ( di certo non tra le migliori composizione di questo full lenght), sfuma sulle dominanti noti di Interlude, giochi vintage da cui si riparte per un lato b, energico e ben bilanciato, battezzato dalla grondante ruggine di Wheels on fire.

A chiudere il disco è infine la splendida emozione di Where are we going?, suite psycho-rock in cui reiterazione e visionarietà vanno a rapire l’ascoltatore attraverso un sound ansiogeno, in grado di ridefinire immagini ipnagogiche attraverso animosità post rock di stampo nordico. Un lungo itinerario che si addensa nella sua parte finale, proprio attraverso aspetti free che trovano nei 13 minuti espositivi lo spazio adeguato per raccontare (senza parole) un viaggio surreale, inevitabilmente legato ad un mondo parallelo, per certi versi vicino all’ecletticità di David Lynch.