Storia del Jazz – II parte. Mo’ better blues

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Le scelte di Spike Lee – PARTE II
Mo’ Better Blues
A Spike Lee Joint

L’altro film di cui ci vorremmo occupare in questa sede è Mo’ Better blues, realizzato da Spike Lee nel 1990, due anni prima di Malcolm X come dicevamo, ma parimenti importante in questo nostro studio sulla cultura afroamericana.

Anche in questo caso il geniale regista può mettere a segno un altro personale primato e cioè scegliere di girare un film su un musicista nero con l’obiettività e lucidità che rimangono ben lontane dalle ridicole “chimere” di un Michael Curtiz, che racconta a modo suo la vita di Bix Beiderbecke, o anche del pur bravo Clint Eastwood, che però non può evitare di far sentire il suo punto di vista “bianco”, nel parlare di Charlie Parker. La annosa avversione di Lee al tradizionale ritratto hollywoodiano dei jazzisti neri gli dà l’ispirazione per il suo quarto film in cinque anni. Ma ecco cosa pensa il nostro di Bird, o di ‘Round midnight di Bernard Tavernier.

Clint Eastwood è un grande regista, ma Bird non mi è piaciuto affatto. E lo stesso vale per ‘Round Midnight. […] Se guardi quei due film, ti accorgi che non c’è gioia né calore. Piove sempre, in tutte le scene…Bird è uno dei film più bui uscito sul grande schermo. E’ come se dicesse: “Questi musicisti erano così tormentati, non hanno mai riso una volta nella loro vita. Le loro vite erano senza gioia e le loro personalità erano tragiche, problematiche e distorte”(Spike Lee).

Quindi,

Ciò che accomuna tutti questi film è che, nonostante il fatto che l’attore principale sia un nero, la grammatica filmica con cui sono costruiti è inadeguata a rappresentare sia la cultura della comunità afroamericana, sia la musica jazz che si è sviluppata nel suo seno. Liberamente ispirato alla biografia di Cole Porter, Mo’ Better Blues di Spike Lee è differente da tutti gli altri film sul jazz proprio perché è diretto e scritto da un autore nero che ha sviluppato una sintassi personale, radicata nella tradizione culturale nera, che porta sullo schermo storie e personaggi con cui il pubblico afroamericano possa identificarsi (Fernanda mone

ta).

Per tutto il film i richiami e le citazioni al mondo del jazz sono costanti; ad esempio il nome del locale in cui si esibisce con frequenza il protagonista, il trombettista Bleek Gilliam (ancora l’impareggiabile attore-feticcio di Lee, Denzel Washington) è Beneath the underdog, letteralmente, “peggio di un bastardo”, ovvero il titolo della celebre autobiografia di Charlie Mingus. L’episodio iniziale in cui Bleek litiga col sassofonista del suo quintetto, Shadow Henderson, perché esegue sempre assoli troppo lunghi è un chiaro ammiccamento al simile racconto che fa Miles Davis di Coltrane nella sua autobiografia. E, a proposito di Coltrane, non dimentichiamo che tutta la scenografia sembra tappezzata dalle copertine dei suoi dischi, soprattutto di A love supreme (doveva anzi essere questo il titolo del film, poi scartato per volere della vedova Coltrane). Dal locale stesso, alla casa di Bleek, alla scena in cui Shadow si riempie le mani di cd di Coltrane in un negozio di dischi.

La colonna sonora, ovviamente essenziale per questo film, è scritta dal padre, Bill Lee, che firma anche il tema che dà il titolo al film, e che più avanti analizzeremo, e da Brandford Marsalis. Sono però utilizzati molti brani caposaldo della storia del jazz. Nell’abitazione del trombettista, dove Bleek sta facendo l’amore con una delle sue donne, Clarke, si ascolta All blues di Davis.

Nel negozio di dischi si ascolta invece Footprints di Wayne Shorter; prima che il quintetto inizi a suonare nel locale si ode Mercy, mercy, mercy dei Weather Report; dopo il pesante pestaggio di Bleek e del suo manager squinternato Giant (lo stesso Spike Lee) c’è nell’aria Goodbye Porkpieheat di Mingus. Tutto il finale della pellicola è poi un caloroso omaggio a A love supreme di Coltrane, che scorre sulle immagini per quasi l’intera durata del primo movimento (Aknowledgement). Due sono comunque le scene che vorremmo analizzare per confermare la grande capacità del regista neroamericano di esternare la più intima essenza di intere sequenze, portatrici di fondamentali messaggi culturali. La prima è quella all’interno del locale in cui poco dopo si esibirà il quintetto di Bleek:
Camera a spalla che stringe su Bleek dal primo piano al primissimo piano. La m.d.p. si ferma su di lui per poi allontanarsi e far entrare anche Shadow

Insomma, è la nostra musica, il jazz è la nostra musica, è musica nera! Invece noi andiamo a sentire quella di altra gente, roba creata da altri e non andiamo a sentire quella nostra!…Vedi, il jazz…ma tu ti rendi conto che, se per mangiare dipendessimo dalla gente nera, moriremmo di fame? Insomma, li vedi anche tu, stai sul palco, guardi il pubblico e cosa vedi? Vedi giapponesi…vedi dei tedeschi…vedi degli slavi…Vedi tutti, tranne i nostri fratelli e questo non ha senso! Non riesco a capire perché la gente non si rende conto del nostro retaggio, della nostra cultura! E’ la nostra musica!

Come possiamo notare, qui è esemplificato chiaramente il pensiero dell’autore; infatti:

In Mo’ Better Blues il dilemma è personificato dalla contrapposizione tra Bleek e Shadow, in contrasto sul repertorio musicale del quintetto. Shadow è convinto che si debba innanzitutto accontentare il pubblico, mentre Bleek si preoccupa solo di creare musica dinamica e originale. […] Spike tornò a trattare un tema affrontato da tutti i suoi film precedenti: la mancanza di un sostegno nero alle iniziative dei neri, ambientandolo questa volta nella sfera dell’arte musicale afroamericana (Spike Lee, Kaleem Aftab).

L’intera sequenza dell’esecuzione del brano che dà il titolo al film è, a nostro giudizio, di grande poesia e abbiamo pensato di analizzarla nel dettaglio, nonché di trascrivere il pezzo di Bill Lee. Esso non è propriamente un blues, ma ha una struttura di 8 battute, ripetute due volte dalla tromba, due dal tenore fino a far seguire la serie dei soli alternati tra i due fiati. L’andamento ritmico è quasi da gospel blues:

Il sound di questo pezzo è quanto mai vicino alle composizioni di un Abdullah Ibrahim, addirittura; ce ne accorgiamo per la scrittura melodica semplice e cantabile e dal contrappunto del tenore che si appoggia, a sua volta, sulla figurazione che esegue la sezione ritmica, creando una sorta di risposta responsoriale alla tromba.

Certamente del blues il brano conserva l’attrazione I – IV – V grado, l’iterazione della cellula motivica iniziale e un certo sapore malinconico, che si evidenzia anche dalla sceneggiatura scritta per questa scena, appunto. Ancora una volta è una didascalica esigenza registica a guidare la sequenza:

Totale dal fondale del palco; stacco: panoramica orizzontale verso destra che passa dietro Bleek che parla al pubblico in sala
– Ok…il prossimo pezzo…oh, voglio farvi una domanda, quanti di voi conoscono il blues?
– Tutti!
– Perché un blues, ti senti solo Bleek?
– Hai indovinato…allora…eseguiamo comunque un pezzo intitolato “Mo’ Better Blues”.
Stacco: totale dal fondale; dolly in avanti e in alto verso la platea
Viene eseguito per intero il tema
Stacco: su Bleek in plongeé, poi dolly verso destra e in basso; stacco su frontale del pianista
Finisce il secondo giro di tema
stacco: totale su profilo di Bleek e Shadow; carrello in avanti verso il sassofonista
Il sassofonista esegue una prima volta il tema; parte col secondo giro di tema
Il carrello continua il movimento verso destra e include il contrabbasso; stacco: primissimo piano su profilo del batterista; stacco: mezza figura del sassofonista e contrabbassista
Iniziano i soli
Al termine, inquadratura contre-plongeé su Bleek chino sul suo microfono che dice
…Il blues…

Come vediamo, la domanda iniziale è quasi provocatoria in un locale di jazz, ma Bleek-Lee vuole continuare il discorso iniziato nella sequenza che abbiamo commentato in precedenza, confermando a se stesso e al pubblico un necessario sostrato culturale comune, dato che sono i bianchi, in maggioranza, gli avventori di locali come quello. Durante l’esecuzione poi, l’intenzione del regista sembra essere quella di presentare ad uno ad uno i membri della band, rendendo pari dignità a ognuno, ma non dimenticando i due veri protagonisti. Le inquadrature dall’alto o dal basso non fanno che enfatizzare infatti il carattere dei personaggi, con la differenza che mentre Bleek è ripreso appunto in questa maniera, per Shadow si usa invece un decoupage più classico e, comunque, al suo livello di statura, quasi a sottolinearne la minore genialità.
Per dovere di cronaca sottolineiamo che ad eseguire in studio questo brano sono: Terence Blanchard alla tromba (amico intimo di Spike Lee), Brandford Marsalis al tenore, il compianto Kenny Kirkland al piano, Robert Hurts al contrabbasso e Jeff Watts alla batteria.
Anche questo film termina negativamente, con Bleek costretto a smettere di suonare per aver subito una violenta aggressione alla bocca, la notte che ha tentato di salvare il suo amico e manager Giant. Ma, ciò malgrado, la speranza di Lee si avverte nei titoli di coda che si aprono con la meravigliosa preghiera che lo stesso Coltrane scrisse nel suo A love supreme: “Dio è in ogni cosa; E’ grazia e perdono. Egli è l’amore, che unisce tutti. E’ veramente, Un Amore Supremo”.