Sushi Rain “Cocktail”, recensione

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Non li ho mai visti dal vivo…e mi spiace, perché nell’ambiente si dice che siano bravi e spettacolari. Anche se il concetto di spettacolare a me personalmente infastidisce sempre un poco, perché spettacolari sono i live di Alice Cooper, dei Motley Crue o di Roger Water. Ma, spettacolare mi hanno detto… e spettacolare scriverò… con il beneficio del dubbio, non potendo ancora giudicare direttamente.

Ciò di cui posso invece parlare apertamente è della seconda opera di questa
(numerosa) band, nata dalle ceneri dei Valentine. Si chiamano Sushi Rain e propongono una mescolanza crossover, basata su sensazioni prog-funk. Da poco tempo si sono accasati con la label indiana Jackson Records di Utsav Banjha per mostrare i loro alter-ego musicali. Ogni componente, infatti, porta con sé una maschera metaforica ed un nome de plume che acuisce la curiosità risvegliata dalla vocalità (e qui cito il comunicato stampa) queen oriented.

Un raccolto vociare ed un lirismo grottesco e stonato…ecco come ha inizio il mondo curioso della band, perfettamente racchiuso attorno alla partitura dell’iniziatica Bunga Bunga che, nonostante il titolo, a mio avviso completamente errato per l’eccesso di esplicito riferimento, riesce ad animare l’ascoltatore mediante la viva tromba di Bert Minten ed il funk immerso in antiche sensazioni prog, pronte a seguire il groove della traccia. Groove che trova continuità ideale in Why?, composizione lineare, ricca di sfumature legate al featuring con la Brass Orchestra. Proprio da qui riparte la doppia vocalità che tende ad abbracciare i fiati con un andamento Commitments, per poi virare verso la dolcezza espressiva di Un ultima notte a Philadelfia e It’s time to believe, da cui emerge un’inattesa aurea caraibica, posta come ponte tra le strofe, pronte a mutare pelle con legittima attitudine.
Tra i brani più intensi ritroviamo la semplicità descrittiva di Free, melanconica e radicata composizione, impreziosita da un inciso ricco di phatos espressivo, in grado di restituire all’ascolto la presa vocale del frontman. Se poi con Brain Drain si torna alla mescolanza funk-prog, con la conclusiva One ci si sofferma ad osservare il garbo di un mondo qui raccontato dal violoncello di Stefano Aiolli e da una struttura sonora che, se ancora ce ne fosse necessità, racchiude un’accorta urgenza espressiva.

Ad impreziosire il nuovo disco promosso da Red Cat Promotion, è l’ottima opera di cover art, ironica e descrittiva, in cui l’impronta fumettistica vive tra colori tenui e tratti spigolosi, che ci introducono con armonia verso un booklet davvero pregevole.