Van Halen – Van Halen (1978)

Verso la fine degli anni 70 nella scena dell’hard rock mondiale si fece strada un nuovo chitarrista di origini olandesi che, effettivamente, suonava in maniera diversa dagli altri “campionissimi” dello strumento visti sino a quel momento. Non era così blues come Jimi Hendrix o Jimmy Page, ad esempio, e neanche selvaggio e ruvido come lo erano in parte Angus Young o Joe Perry. Eddie Van Halen aveva uno stile tutto suo, affilato come una lama di un coltello e suonava a meraviglia assoli unici, fatti di virtuosismi pazzeschi con un sound pulito che era un piacere ascoltare. Molti ne rimasero piacevolmente sorpresi.

Il disco omonimo di esordio della band che usci nel 1978 e che porta il suo cognome ebbe un grande successo, anche grazie al cantante narcisista, malandrino e strafottente playboy di nome David Lee Roth. La chimica in studio sembrava fatta apposta per esplodere, come un vulcano, e forse non è un caso che l’unico pezzo strumentale del disco, che metteva tutte le carte in tavola circa le succitate doti del leader, s’intitoli proprio “Eruption”. L’affascinante copertina nera fu un altro elemento certamente indovinato del progetto, con i quattro membri del gruppo ad occupare i rispettivi angoli del quadrato. David Lee Roth in alto a destra è ritratto in una posa sessualmente esplicita, con una mano spavalda piazzata sulle parti intime, che chiariva già tutto su dove quella combriccola voleva a andare a parare, anche nei testi delle canzoni.

La cover dei Kinks “You really got me” fatta in chiave più heavy e, in un certo senso, anche più sbarazzina, fu il primo singolo dirompente che lanciò l’album Van Halen nelle classifiche. Ma l’LP è pieno di brani convincenti fra i quali “Jamie’s crying” è forse quello che mi è sempre piaciuto molto per il modo con cui Roth la interpreta. In realtà non fu mai pubblicato come singolo a differenza dell’accattivante apripista iniziale “Running with the devil”, farcito degli urletti tipici del front man, immersi fra gli innumerevoli riff ed assoli di Eddie. Da poter ascoltare in auto a tutta velocità c’era invece “Ain’t talking ‘bout love”sostenuta dalla sezione ritmica senza fronzoli formata da Michael Anthony al basso e dal fratello di Eddie, Alex Van Halen. A distanza di anni, con i finestrini abbassati a tutta birra sull’autostrada, fa ancora il suo figurone. Sul lato B si distingue “Little dreamer” che ha un approccio più seducente, con quei cori al femminile e David che gli fornisce il proprio tocco vocale da marpione, in certi punti quasi parlando più che cantando. Tutto l’opposto della finale “On fire” piena di acuti inverosimili e un ritmo frenetico, ideali per salutare alla grande l’ascoltatore, quasi invitandolo a rimettere da capo l’album per un nuovo ascolto.

Anche se il loro più grande successo diventerà sei anni più tardi l’album “1984”, trascinata dalla hit “Jump”, a mio avviso il loro picco artistico resterà questo fulmineo esordio, condito da spontaneità, talento e una tonnellata di sfrontatezza.