Storia di una … (The) Band – Parte quinta

Copertina di Music from Big Pink

Capitolo V: Musica dallo scantinato

Quali sono le sedute di registrazioni di musica rock che sono leggenda?

Due su tutte: The Beatles per The White Album e Dylan & The Band nello scantinato di Big Pink.

The Band? Sì, perché è a Woodstock che the band diventa The Band.

Come ricorderà Richard Manuel in The Last Waltz: “everybody was callin’ us the band, where is the band? What is doin’ the band? So we decided to call ourselves … The Band.” (tutti ci chiamavano la band, dov’è la band, che fa la band? Così decidemmo di chiamarci … The Band).

Rick Danko: “una volta sistemati nella casa di Woodstock, ripulimmo lo scantinato di Big Pink, Garth procurò un paio di microfoni e li collegò a un registratore a due piste, quello era il nostro studio di registrazione. Per dieci mesi, da marzo a dicembre del 1967, ci trovammo con Dylan nello scantinato a suonare per 3 ore al giorno, 6 giorni la settimana.”

Con tutto il rispetto per The Beatles, questa fu la più incredibile serie di registrazioni della storia del rock, leggendaria perché passeranno 8 anni prima che il materiale – la descrizione di Danko spiega sia l’eccezionalità dell’evento tanto la precarietà dei mezzi con cui fu immortalato – venga pubblicato con un doppio album intitolato “The Basement tapes” i nastri dello scantinato, l’album era mitico prima ancora d’essere pubblicato. Ad oggi il sogno di ogni persona che abbia assaggiato “The Basement tapes” è che la Columbia – oggi Sony – prima o poi pubblichi l’edizione integrale di quelle sedute.

A rendere straordinaria la musica dello scantinato è il travaso: Dylan – naturalmente – scrive il 90% del materiale, ma grazie alla band adesso nella sua musica ci sono influenze blues, rockabilly e Rhythm&Blues.

Stare con Dylan intanto ha fatto crescere le quotazioni della band, i demo che escono da Big Pink fanno rizzare le antenne ai discografici, a vincere la corsa è la Capitol che li mette sotto contratto per 10 album. Intanto l’assenza di Levon ha dato una nuova arma al gruppo: Richard Manuel alla batteria. Quando Levon Helm arriverà a Woodstock sarà sorpreso due volte: prima dalla notizia, poi, ascoltando i nastri, dalla qualità del drumming di Manuel. The Band adesso è un ensemble di 5 musicisti che suonano 17 strumenti, hanno 3 voci soliste e 2 batteristi.

Nel luglio del 1968 esce così un album intitolato “Music from Big Pink”.

Ma come si fa 37 anni dopo a spiegare l’effetto che fece? Su Billboard si fermerà al #30 ma impressionerà gente come George Harrison mentre Eric Clapton dirà: “Quando ascoltai Music from Big Pink capii che quello che avevo fatto fino a quel momento era tutto sbagliato”. La copertina è un quadro – dipinto da Dylan, c’è un concorso per dargli un titolo – con dei musicisti e un elefante; alla mistica contribuiscono il nome allo stesso tempo anonimo ed enigmatico – The Band – e un poscritto sotto la foto di Big Pink: “una casa rosa adagiata nel sole del monte Overlook nei Saugerty occidentali, nello stato di New York. Big Pink ha portato questa musica e queste canzoni. E’ la testimone di questo album che è stato pensato e composto tra le sue mura.”

Non c’è scritto il nome di chi canta e suona e tanto meno i testi che spesso il cantato rende volutamente incompensibili per aumentarne l’emozione.

Siamo nel 1968 – sì, quel ’68 – e “Music from Big Pink” fa la rivoluzione a rovescio: all’interno dell’album c’è una foto, intitolata next of kin, che in un ambiente decisamente rurale ritrae i componenti del gruppo – tutti con un look sobriamente western da foto virate seppia dei primi del Novecento – insieme a 3 generazioni del loro parentado. Anche la scelta del fotografo è – diremmo oggi – low-fi: The Band cerca volutamente il fotografo più sfigato di New York, ma Big Pink farà la fortuna anche di Elliott Landy – all’epoca scattava per una rivista che si chiamava … The Rat, il Topo – che diverrà uno dei più richiesti fotografi in ambito rock.

Due mesi dopo l’uscita del disco – destinato a influenzare generazioni di musicisti – The Band va in copertina su Rolling Stone, la foto? Di Elliott Landy!

E le canzoni? le canzoni sembrano venire dalla notte dei tempi, sentiamole ma prima la parola a John Simon, il produttore:

“A caratterizzare The Band è che tutti suonavano qualcosa di significativo e che fosse parte dell’ingranaggio musicale. Non cercavano mai l’assolo e nessun suono era gratuito.”

1 – Tears of rage

“We carried you in our arms on Independence Day, and now you’d throw us all aside and put us all away, oh what dear daughter beneath the sun could treat a father so?”

La contro-rivoluzione parte dalle prime parole della prima canzone: la scelta controcorrente di aprire con un lento e soprattutto con un testo che narra delle “lacrime di rabbia” di un padre. Il brano porta la firma di Dylan e Manuel, qui alla voce solista.

2 – To kingdom come

Degna di nota soprattutto perché resterà per anni l’unico brano cantato da Robbie Robertson; Robbie era un vero leader cui interessava il meglio per le canzoni, consapevole che Levon, Rick e Richard avevano voci con cui non poteva competere aveva l’umiltà e l’intelligenza di limitarsi alla chitarra pur essendo l’autore di gran parte delle canzoni.

Il testo è un autentico esempio di canzone di frontiera ed è ricco di immagini bibliche (Il Regno che verrà, il Vitello d’oro) a puntellarne l’atmosfera.

3 – In a station

La prima canzone – in questo album toccherà poi a Caledonia Mission e a The weight – in cui compare ai cori il falsetto di Manuel, Richard non canta le parole ma la sua voce emozionante impreziosisce il tessuto vocale ed emoziona.

4 – Caledonia mission

“She reads the leaves and she leads the life that she learnt so well from the old wives”

Rick Danko canta magnificamente questo testo di Robertson; Robbie che dieci anni prima ha rubato i segreti della chitarra ascoltando i grandi del blues, adesso dimostra che stando con Dylan ha imparato a scrivere testi da fare invidia anche a mister Zimmerman!

5 – The weight

Introdotta da Robbie alla chitarra acustica e poi dall’inconfondibile drumming di Levon questa è la canzone più famosa, anche Aretha Franklin ne farà una cover ma sarà difficile anche per una grandissima come lei competere con l’artigianato di The Band: se è vero che il citato drumming di Levon caratterizza la canzone, come ignorare il coro a tre voci – Helm, Danko e Manuel – che entrano in tempi diversi per poi fondersi magicamente? Queste armonie vocali rappresentano uno dei pezzi forti dei primi due album di The Band e trovano in questa canzone uno dei momenti più intensi.

Da non trascurare anche in questo caso il fascino e il mistero evocati del testo di Robbie Robertson, l’uomo che si chiedeva cosa ci facessero tante parole nelle canzoni di Dylan è qui autore di liriche su cui saranno versati fiumi d’inchiostro. A proposito, le reminiscenze cattoliche di Robbie sono una falsa traccia, la Nazareth in questione si trova in Pennsylvania e l’idea di tirarla in ballo è dovuta al suo essere sede della fabbrica di chitarre Martin, parola di Robbie Robertson.

6 – We can talk

Questo è l’esempio più vivace e melodico della vena compositiva di Manuel e l’arrangiamento è un gioiello sia per la parte vocale – in cui i tre cantanti interagiscono alla grande – che per la parte musicale dove spiccano l’organo di Garth e i riff della chitarra di Robbie che come un’anguilla si infila in ogni minimo spazio che trova.

7 – Long black veil

Questa è una cover di un brano degli anni ’50 ma come spiegherà Robbie: “era una canzone come quelle che stavo iniziando a scrivere, canzoni che a sentirle non si riusciva a capire se fossero state scritte oggi o nel 1913.”

8 – Chest fever

Scritta da Robertson e caratterizzata dall’introduzione di Garth all’organo – introduzione che negli anni a venire diverrà the genetic method ma sarà tempo di parlarne più avanti – la canzone si affermerà come uno dei pezzi forti del repertorio dal vivo di The Band.

9 – Lonesome Suzie

Una struggente canzone d’amore per la debole e sola Suzie, la sensibilità di interprete e di autore di Richard Manuel al servizio di un brano suggestivo ed emozionante.

10 – This wheel’s on fire

“This wheel’s on fire, rolling down the road, just notify my next of kin, this wheel shall explode!”

Scritta da Rick Danko e Bob Dylan è una canzone inno generazionale e certo uno dei testi più “belli e dannati” scritti da Dylan e uno dei 2-3 più grandi brani della storia del rock secondo Greil Marcus. Grande prestazione vocale di Danko, sostenuto da Levon e Richard, ma a caratterizzare il brano è la straordinaria inventiva di Garth Hudson all’organo Lowrey.

11 – I shall be released

Un inedito di Dylan chiude l’album. Una canzone che diventerà famosa e saranno in tanti a cantarla, ma nessuno riuscirà a darvi la pelle d’oca come Richard Manuel: il suo falsetto è di una bellezza pura e lancinante.

L’edizione su CD remasterizzata a 24 bit pubblicata nel 2000 e curata da Robbie Robertson presenta ben 8 bonus tracks a testimonianza del grande lavoro fatto in studio prima di raggiungere l’eccelso risultato finale.

Music from Big Pink non ha nulla a che vedere con la musica che il gruppo aveva fatto per Ronnie Hawkins e tanto meno con quella suonata per Dylan – ricordiamo che The basement tapes saranno pubblicati solo nel 1975 – il lungo apprendistato ha portato The Band a operare una sintesi di tutti i generi della musica americana. Dalla nascita del rock&roll non si faceva altro che imbiancare la musica nera ecco che The Band inverte la tendenza: le voci dei tre cantanti sono ispirate da artisti come The Staples Singers mentre i fulminei riff di chitarra di Robertson vengono dal grande Curtis Mayfield.

Quattro delle undici canzoni sono firmate da Richard Manuel: la sua voce carica di soul è perfetta per accompagnare i suoi testi fitti d’emozione. Più evocative e radicate nella tradizione popolare americana le quattro canzoni firmate da Robbie Robertson – Robbie è canadese ma ha fatto suo il mondo e le storie del Delta grazie ai racconti di Levon. Brani come To Kingdom Come e Caledonia mission rappresentanto la quintessenza del genere “Americana” una tendenza artistica volta a rappresentare ambienti e temi tipici della cultura statunitense.