Storia di una … (The) Band – Parte sesta

Copertina del Brown Album

Capitolo VI: The Band

L’attenzione suscitata dalla pubblicazione di Music from Big Pink ha fatto salire alle stelle la quotazione di The Band nonostante il gruppo sia impossibilitato a sostenere il disco con dei concerti: in un incidente d’auto lungo le strade di montagna di Woodstock – una costante per gli spericolati Helm, Danko e Manuel – Rick Danko riporta fratture multiple che lo terranno immobilizzato per mesi. Gli altri quattro – fedeli allo spirito di The Band – rifiuteranno un sacco di soldi pur di non esibirsi senza il loro bassista/violinista/cantante.
Così nei primi mesi del 1969 maturano i tempi per lavorare a un nuovo album: le dodici canzoni porteranno tutte – solo o come coautore – la firma di Robbie Robertson: ciò darà una maggiore unità tematica ai testi e alle musiche rispetto al disco d’esordio. Il canadese Robertson ha ormai portato a compimento la sua immersione nel mondo rurale tradizionale statunitense, cosa che gli consente di mettere a fuoco una serie di ritratti di Americana che restano ancora oggi attuali.
Proprio questi temi rurali e legati alla tradizione avevano convinto The Band che il titolo di questa nuova fatica sarebbe stato Harvest – il raccolto, ossia il momento centrale della vita nei campi – ma i discografici della Capitol premeranno perché il gruppo dissolva la confusione derivata dai credits di Music from Big Pink e che quindi il titolo sia semplicemente: The Band.
A lungo andare il disco – concepito a Woodstock ma registrato a Los Angeles in uno studio allestito nella villa di Sammy Davis jr. – verrà identificato da critica e fans come the brown album in ovvia contrapposizione ad un altro grande disco senza titolo di quegli anni the white album dei Beatles: così come l’album “bianco” rappresenta un vertice d’ispirazione e diverrà un modello di riferimento per il rock inglese, l’album “marrone” diverrà l’apice di un genere al punto da essere ancora oggi un punto di riferimento per il rock a stelle e strisce.
Anche stavolta le foto sono di Elliott Landy: Richard, Levon, Rick, Garth e Robbie – da sinistra a destra – con il loro look da frontiera del primo Novecento ritratti in un virato seppia che farà epoca per una copertina che diverrà una delle più imitate della storia del rock.
Prima dell’uscita del nuovo album giunge anche il tempo del debutto dal vivo di The Band.
Il leggendario organizzatore Bill Graham aveva obbligato The Band a non tornare a New York – una volta terminate le sessioni di registrazione losangeline – senza aver suonato nel suo locale di San Francisco: Winterland. Il meglio della stampa americana – specializzata e non attende – questo debutto; i critici che hanno tessuto le lodi del disco d’esordio – grandi nomi come Ralph J. Gleason, Greil Marcus e altri – sono febbrili. Qualcun altro è invece febbricitante: Robbie Robertson. Febbre a 40 all’arrivo a San Francisco, il chitarrista è comatoso, non sta in piedi, ma di annullare le serate – ne sono previste tre – non se ne parla, uno dei medici interpellati diagnostica un esaurimento nervoso, qualcuno suggerisce di convocare un ipnotista. Alla fine l’esordio dal vivo di The Band invece di passare allo storia per la musica del gruppo – la performance sarà ordinaria – sarà ricordato per le foto che ritraggono Robertson barcollante sul palco e con gli occhi fissi verso le quinte dove c’è l’ipnotista che cerca di tenerlo in piedi.
Per i 5mila presenti – un ovvio tutto esaurito – quella sera del 17 Aprile 1969 resterà ipnotica anche per motivi strettamente musicali, se è vero che il malessere di Robbie condiziona The Band, il debutto serve comunque a svelare le tante curiosità create dall’enigmatico album d’esordio.

Se l’esordio live era stato solo in parte all’altezza delle aspettative suscitate da Music from Big Pink, il secondo album – come già detto – le soddisferà in pieno e anzi eleverà The Band ai livelli degli artisti rock più rispettati dell’epoca.
The brown album vedrà ancora John Simon alla produzione, di fatto anzi Simon al momento è il sesto componente del gruppo ma i due capi – Robertson e Helm – risponderanno picche alla sua richiesta di divenirlo a pieno titolo.

1 – Across the great divide
Come ha ben spiegato Greil Marcus la musica di The Band rende omaggio agli USA – in un periodo, quello del Vietnam, in cui tanti americani avevano dubbi sul proprio paese – un americano verace, Levon, che canta senza nascondere il suo pesante accento sudista, e quattro canadesi, mostrano interesse persino per la geografia a stelle e strisce.
Greil Marcus: “il semplice fatto che esista un posto come the great divide attrae The Band. Il simbolo è pieno di significati – è il posto dove il paese si divide in due, ma anche quello dove si incontra. Questa doppia metafora spiega chiaramente le ambizioni di The Band. La prima canzone e quelle che seguono intendono to cross – attraversare – the great divide tra uomo e donna, tra passato e presente, tra zone rurali e urbane, tra Nord e Sud, tra The Band e il suo nuovo pubblico.”

2 – Rag mama rag
Sarà uno dei singoli e diverrà uno dei pezzi forti dal vivo. Helm al mandolino, Danko al violino, Manuel alla batteria, il ritmo sincopato al piano è opera di Hudson mentre Simon è al basso tuba.

3 – The night they drove old Dixie down
Greil Marcus: “non è tanto una canzone sulla Guerra Civile quanto sul fatto che questo evento rappresenta qualcosa per ogni singolo americano. In questo caso l’uomo si chiama Virgil Kane, non reclama di parlare a nome di qualcuno, ma il suo tono fa sì che tutti lo ascoltino.”
La canzone è forse il punto più alto del songwriting di Robbie Robertson, straordinaria – e come intuibile ricca di pathos autentico – l’interpretazione di Levon Helm, uomo del Sud.

4 – When you awake
Uno dei tre brani firmati Robertson-Manuel.

5 – Up on Cripple creek
Altro singolo ed uno dei classici del repertorio di The Band e del rock americano.

6 – Whispering pines
Pochi cantanti hanno ricevuto tanti e incondizionati attestati di stima dai colleghi come Richard Manuel, questo brano da solo vale a spiegarne il perché: una lacerante capacità di emozionare.

7 – Jamima surrender
Uno dei pezzi più rock di The Band: Levon alla chitarra ritmica, Robbie alla solista, Richard alla batteria, mentre Garth fa la parte che di solito è di Robbie dispensando con il suo pianoforte lampi di boogie woogie.

8 – Rockin’ chair
Un piccolo gioiello di Robertson che evoca il tempo che passa attraverso il racconto di due vecchi marinai: straordinario il lavoro alle voci di Manuel e Danko mentre Garth Hudson regge il pezzo suonando da maestro la fisarmonica, il gusto retrò è accentuato dal mandolino di Levon e dalla scelta di una chitarra acustica per Robbie Robertson.

9 – Look out Cleveland

10 – Jawbone

11 – The unfaithful servant
L’abum si chiude con due brani che potremmo dire sperimentali per il modo in cui forzano la struttura tradizionale della forma canzone. In questa troviamo una dei migliori momenti alla voce solista di Rick Danko.

12 – King Harvest (has surely come)
Il pezzo di chiusura – “la più grande canzone scritta da Robbie” Greil Marcus – ha un testo che evoca i tempi della “grande depressione” gli anni ’30 del Novecento, quelli della crisi economica, quando il protagonista – ancora un uomo del Sud come il Virgil Kane di 70 anni prima – come ultima spiaggia diventa un attivista del sindacato.
Musicalmente è uno dei brani più ardui della storia del rock, si è spesso parlato delle influenza del cinema sul songwriting di Robertson e King Harvest ne è sicuramente uno degli esempi migliori: la voce di Levon assume quasi il ruolo di voice-over – di narratore – mentre è Richard Manuel a cantare in prima persona – e con la capacità d’immedesimazione di cui egli solo è capace – la vicenda del protagonista.

L’edizione su CD remasterizzato a 24 bit pubblicata nel 2000 presenta sette bonus tracks tra le quali spicca una versione alternativa di The night they drove old Dixie down che è a mio avviso migliore di quella sull’album originale perché mette meglio in evidenza il magnifico lavoro di Richard Manuel all’armonica.