Samuele Bersani – Cinema Samuele, recensione.

Non risulterà mai tra i più prolifici cantautori della nostra storia, ma la scrittura verbale e sonora di Bersani ha toccato e tocca livelli combinati difficilmente confrontabili, al di là dei gusti personali di ciascuno.

Accade perciò che ad ogni sua uscita la curiosità per chi cerchi qualità in musica sia costantemente elevata.

Eccoci quindi al nuovo episodio di una trentennale carriera (con un po’ di assenze, si diceva, ma buon per lui che le pause gli siano possibili). Stavolta la produzione, raffinata e solida come sempre, è affidata a Pietro Cantarelli, che molti conosceranno già per le belle realizzazioni ad esempio con Fossati, ma anche per Ho amato tutto di Tosca, o perché no proprio con Bersani, a cui ha scritto la musica di Binario 3 in Caramella smog.

Di questa parte sonora dico due cose dopo. Entriamo nel cinema a guardare i cortometraggi in proiezione.

Analisi del disco

Si parte con Pixel, ritratto sociale e personale di un progresso urbano vivo di individualità che si incrociano e non sempre si incontrano davvero, ma in qualche modo si cercano, talvolta con sospetto e non solo tra umani, visto che anche “le vetrine intelligenti mi leggono il labiale”, in una interazione sospettosa tra uomo e merce esposta che già in La soggettiva del pollo arrosto creava, magari col sorriso, analoghe contrastanti emozioni.

Il tiranno porta con sé l’ansia di liberarsi da controlli (stavolta non “appesi al collo” ma indotti da qualcuno), con melodia, armonie e arrangiamento perfetti nella tensione interiore delle parole e nel tempo dispari di un ritornello che spezza, proprio come il tre quarti sospeso della suddetta “soggettiva” aveva saputo fare anni prima in altra maniera, con un più scanzonato retrogusto di Talking Heads.

Mezza bugia riapre il tema caro all’autore (evidentemente purtroppo per lui) della comunicazione distorta se non fallata in coppia, con strofa beatlesiana (e ci riporta un po’ a Settimo cielo) e un ritornello di solenne eleganza, che marca in penna blu in un corsivo d’autore e senza urli un riferimento a cui dedicare un capitolo qualunque di un eventuale tomo “come scrivere una canzone: alchimie di musica e parole indissolubili”.

Il tuo ricordo ha strofe non semplici da cantare o ricordare e quindi magari non diventerà nella memoria popolare la nuova Mille giorni di te e di me, ma è un’analisi portentosa di un sé visto da fuori che si vede in lotta con un passato invadente che tiene prigioniera la possibilità del futuro, con una melodia leggera a ricordare nella strofa atmosfere vicine a Chiedimi se sono felice, per poi arrivare ad un ritornello riflessivo che si ferma a prendere atto della situazione.

Harakiri è di certo “il” singolo che classicamente Samuele sa produrre con risultati per certi versi unici, con la capacità immutata e anzi evoluta nel tempo di raccontare un dramma in una storia a fumetti, che ti lascia scendere le lacrime sul sorriso e ti fa chiedere cosa ci facciano questi due insieme sulla tua faccia. Il tutto a prescindere da un finale che, nei dibattiti tra amici, è divisivo e per taluni (ad esempio lo scrivente) sembra essere opposto a quanto l’autore abbia lasciato intendere in un paio di interviste. Fate voi…

Le Abbagnale: l’omosessualità in canzone (che già il nostro aveva affrontato vent’anni prima) ha precedenti numerosi in brani coraggiosi di denuncia, vergognosamente di condanna, orgogliosi di ostentazione, ironici nella giocosità, spavaldi nell’esporsi: mancava forse una canzone… normale, in cui l’essere omo o etero finalmente non è “il” punto, e la storia celebra il come, l’unicità di un rapporto vista come quella di altri rapporti unici, accompagnata da una celebrazione sonora tra sezione fiati e ritornello frontale che sono, quelli sì, una dichiarazione di indipendenza.

Con te apporta il consueto intervento in tre quarti lenti che abita ogni lavoro di Samuele da tempo (direi che possiamo escludere giusto i primi due album, anche se una cover nel secondo introduceva in modo più nervoso il ritmo amato alternandolo), e qui forse siamo musicalmente nel momento involuto dell’album, con un’ambientazione poco solare certamente scelta ma che non sembra trovare una via d’uscita, un compimento che non la lasci intrappolata, perfino quando il ritornello apre in parole all’abbandono di sé al proprio destino, alla perdita di difese, invitando quindi l’aria ad entrare mentre le scelte di arrangiamento tengono gli scuri ancora parecchio accostati.

Scorrimento verticale mette assieme inquietudine ed ironia in modi e soluzioni che fanno capire anche ai neofiti di Bersani perché lui sia davvero tra i vertici assoluti del cantautorato su queste cifre stilistiche. Per scelta ho omesso citazioni dai testi e proseguo nel farlo, ma vi sarà divertente e gustoso trovare qui e altrove nell’album delle chicche imperdibili.

L’intervista riprende un altro argomento affrontato in vari album, il lavoro che c’è e che, insomma, ha una stabilità tutta da verificare e spesso infranta con poco (cfr. Sicuro precariato, ma anche la poderosa, inarrivata sintesi di “primo giorno di lavoro, già un reclamo e sono fuori” scolpita in Lascia stare), stavolta con un tiro che ti fa ballare pure se eri in ascolto sdraiato sul divano.

Si chiude con Distopici, uno scenario praticamente disegnato in parole e musica che racconta di fatto i tempi in cui l’album è uscito come fosse un documentario interiore dagli occhi al cuore. Anche qui c’è un rimando a territori che proprio materialmente sembrano percorsi in parte in Meraviglia, di vari album fa, e come accadeva li anche stavolta un fascio di luce da dentro scalda il freddo che fa fuori in un ritornello che è un gioco di lettere minuscolo a riportare l’orizzonte desolato in un abbraccio caldo un passo per volta.

Come suona?

Siamo usciti dal cinema e possiamo aggiungere due parole sulla produzione, come dicevamo prima di entrare.

Bella, davvero bella e stilosa, con elettronica e strumenti materiali suonati a mestiere tutto messo assieme con la sapienza artigiana di chi sa disporre in ordine gli elementi e curare, dei cortometraggi, fotografia, costumi, montaggio e scene.

Stupisce, ormai non più di tanto perché non è affatto la prima volta con Bersani, l’apporto intenzionalmente frenato in termini di esposizione di musicisti che tecnicamente saprebbero davvero il fatto loro e troppo spesso sono limitati nei ranghi di un filo da tenere senza spazi di fantasia e talento che, semplicemente, darebbero ariosità e ampiezza in moltissime situazioni. Il mio conscious bias è in questo momento concentrato in particolare sul grande Paolo Costa, che qui davvero trova spazio per la sua bravura in pochissimi evidenti momenti, ma parlo anche per altri numerosi punti in cui la scelta di comprimere tutto in tempi e “walls of sound” certamente d’impatto pregiudica l’allargamento di campo visivo che un assolo, una variazione, un’evidenziazione cercata, una briglia sciolta in passaggi sonori tra elementi diversi di un brano consentirebbero senza alcuno sforzo da parte di musicisti chiaramente di valore (gli esempi migliori di quel che si poteva raggiungere con questo approccio li abbiamo, nella discografia di Bersani, con L’oroscopo speciale e Caramella smog, e per certi versi con L’aldiquà).

A parte questo? A parte questo…

Conclusioni

…A parte questo, dicevo, non credo avrete voglia di rileggere tutto l’articolo circa i brani, ma si tratta di un album notevolissimo, molto ricco di contenuti, realizzati con grande cura e con risultati attualmente inesistenti nel mercato del pop.

Non perdetelo. Arricchisce, emoziona, diverte.

WEB. https://www.samuelebersani.net/

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