Milano Summer Festival. Iron Maiden Live 2023

See you somewhere in time

Non saprei quantificare quante sono le volte in cui sono stato sotto il palco degli Iron Maiden; direi semplicemente tante, ma poco importa il numero preciso. Ho avuto l’età e la fortuna di vedere sul palco Paul Di’Anno, Blaze Bayley, Bruce Dickinson e non nascondo che sin dai primissimi anni ‘80 la band del West end è stata per me una costante attraverso questi quattro lustri di metallo pesante.

Pertanto, posso permettermi (ad onor di cronaca) di parlare liberamente e con cognizione di causa, dicendo quello che, probabilmente, molti fan non vogliono sentirsi dire: il concerto di Milano 2023 non è stato così emozionale, avvolgente e potente come in passato… mandiamo in ordine.

Location con polemica. (Opzionale)

Non è la prima volta che vivo l’ippodromo milanese come scenografia di un live, ma in questa occasione qualcosa non è andata per il verso giusto e forse la risposta è: sto invecchiando. Infatti, più di altre volte, mi sono ritrovato stordito dal caldo africano che ha dominato dalle 16 alle 21 senza soluzione di continuità. Certo, siamo a luglio inoltrato e sotto la Madonnina non potevamo certo aspettarmi un dolce refrigerio. Ma, alla luce dei fatti, sento il dovere di descrivere il pensiero di molti, tenendomi lontano dall’annosa questione token e dai prezzi sconsiderati di cibo, magliette e birre, ma cercando esclusivamente di concentratemi sull’insufficiente gradevolezza di uno spazio concerti potenzialmente meraviglioso. Mi spiego meglio mediante una semplice domanda: perché l’organizzazione non ha investito parte del buon fatturato in zone d’ombra? Non si chiedeva chissà che, ma costringere gli astanti a rannicchiarsi attorno ai bagni chimici o ai pochi alberi presenti intenti a sfuggire al solleone, non mi è sembrata proprio un’idea geniale. Considerando inoltre che la mia età, in linea con l’80% dei convenuti, avrebbe desiderato una zona shadow-relax con panche e tavoli, magari con vaporizzatori in grado di calmierare l’afa.

Al momento non mi capacito di questa mancanza e non la comprendo, ma attenzione (!), non sto facendo opinione, ma semplice cronaca nata dall’osservare e dall’ascoltare uomini e donne (anche over 60) seduti per terra tra polveri e fogliame, in cerca di riposo e frescura.

Il live.

Lasciamo alle spalle le blande polemiche per parlare di musica con i vari e puntualissimi avvicendamenti tra il goove metal dei The Reven Age, il sound aggressivo avvolgente dei Blind Channel, bravi a coinvolgere i presenti attraverso venature nu metal, e la verve Symphonic degli Epica, pronti a portare sul palco una set list estratta dagli otto full lenght della band, come sempre governata dalla voce lirica di Simone Simons e dal growl di Mark Jansen.

La maggior parte dei contenuti, però, come italica tradizione impone, si avvicina finalmente al palco solo per l’imminente show degli Stratovarius, il primo grande nome della serata. Attenzione però… Il concetto di “avvicinarsi” vale solo per chi in possesso di un biglietto Pit, a mio avviso davvero troppo esteso, ma è inutile parlarne, Il dio denaro vince su romanticismo live anni ‘80 e ’90,  quando le prime file erano terra di libera conquista.

Alle 19:15  la straordinaria puntualità rispettata nelle sessioni precedenti viene a mancare. Qualcuno si chiede come mai dell’inatteso ritardo. Poco male… ecco finalmente gli Stratovarius, accompagnati dalle note di Black Diamond; ma qualcosa non sta andando per il verso giusto. La voce di Timo Kotipelto non arriva al pubblico, almeno fino a quando qualcuno decide di intervenire su di un microfono muto. La gente sorride e si guarda scuotendo il capo, ma lo stupore nei volti deve ancora arrivare, perché la seconda traccia Hunting high and low è presentata dal frontman come atto di chiusura del live. “Come?? L’ultimo brano? Avrò capito male!?” dice qualcuno…ed invece…

Spero tanto che nessuno dei 35.000 presenti abbia speso €100 e più con il desiderio primario di vedere la band finlandese. Proprio nel momento in cui penso, vedo e analizzo l’incazzatura di molti, la mia mente balza al 1995 quando vidi il concerto più breve di tanti (e vi assicuro davvero tanti): i Red Hot Chili Peppers, che abbandonarono il palco dopo 47 minuti. In allora la gente iniziò ad inveire, lanciando lattine e oggetti di ogni tipo… pertanto era logico per me attendermi una similare rimostranza, ma questa volta ce la siamo cavata con qualche semplice fischio e poco più.

Tra lo sgomento e le sopracciglia alzate, una voce ufficiale arriva sul palco a motivare l’accaduto. Si dice che la band abbia avuto problemi di ritardi con gli scioperi dei voli, problema al quale, poi, abbiamo scoperto essersi aggiunto una complicazione meccanica ai mezzi di trasporto previsti nella tratta Zurigo-Milano.

Ad ogni modo, la moderata protesta mi ha obiettivamente stupito, facendomi pensare che in fondo gli astanti avessero un unico focus chiamato Iron Maiden.

Ore 20:55, Doctor Doctor

Tra caldo e zanzare scoccano le 20:55 e degli altoparlanti iniziano a sgorgare le note di Doctor Doctor prima e Blade Runner poi, atti anticipatori di una set list nuova, coraggiosa, convincente ed accorta.

A dare battesimo all’attesissimo live è l’emozionale Caught Somewhere in Time, un dolce ritorno ad un passato straordinario, quando i Maiden rappresentavano più che mai il mondo metal. Un ritorno al 1986 raggiunto a bordo di una DeLorean, qui mossa dalle note di una “Time Machine” in grado di mescolare ieri e oggi. Un viaggio temporale, attraverso il quale i fan di ogni età hanno potuto godere di uno show reale, vivo ed evocativo, ma a mio modesto modo di vedere, meno coinvolgente rispetto al passato recente e remoto. Però, nonostante una versione non molto riuscita di The Prisoner, un McBrain sottotono (d’altra parte le sue bacchette hanno 71 primavere) ed un Dickinson a tratti sopra le righe, il live prosegue tra scenografie cangianti, costumi e fuochi che rendono palcoscenico un teatro in cui osservare la straordinarietà ordinata di Steve Harris, la forma smagliante di Murray e Smith, senza dimenticare l’arte circense di Janick Gers che, perdonatemi, non ho mai amato.

Il live offre, come da tradizione, le attese incursioni di Eddie, pronto a combattere a suon di spari con Dickinson, bravo a tornare in linea con la straordinarietà narrativa di Death of the Celts e le note di Can I play with Madness, che assieme Heaven can wait e Alexander the Great offrono ai presenti tre vertici che da soli valgono il prezzo di entrata.

La scaletta gioca poi con gli “oh oh oh” di Fear of the Dark, per virare in maniera libera e liberatoria verso le note di Iron Maiden, accompagnata dalla versione mastodontica e gonfiabile di Eddie the Head in versione Senjutsu.

Dopo una breve pausa, ecco arrivare l’atto finale di un encore giocato sulle arie post apocalittiche di Hell on Earth, The Trooper, motivo di ampia discussione in questo The future Past Tour, e Wasted years, chiusura di un live che, tra luci ed ombre, ha mostrato come i Maiden rappresentano ancora oggi un vero e proprio culto da perseguire.