Storia del jazz – Capitolo 8 – Abdullah Ibrahim

Abdullah Ibrahim

“Ecco perché oggi l’uomo nero soffre
Ci hanno portato via la nostra cultura
Ecco perché oggi l’uomo nero soffre
Hanno preso la nostra gente
Ecco perché oggi l’uomo nero soffre
Ci hanno preso la nostra terra
[…]
Dobbiamo stare insieme, uniti
Ecco perché oggi l’uomo nero soffre”

(da: Why Black Man dey suffer?)

Stavolta è la voce di Fela Kuti che abbiamo scelto per introdurre un grande musicista che simboleggia la riscossa dell’Africa contro secoli di oppressione e contro la vergogna dell’Apartheid: Abdullah Ibrahim. E’ sufficiente ripercorrere le tappe fondamentali della sua biografia per comprendere quanto appena detto: nato a Cape Town nel 1934 col nome Brand (detto anche “Dollar” Brand) già nel ’50 subisce gli effetti del Group Areas Act, legge che sancisce precisi limiti territoriali ai diversi gruppi razziali, che, così, si vedono separare tra loro e perdere quel miracoloso incontro di culture che fino allora s’era avuto in Sud Africa. In particolare, la gente di colore non ha più libertà di circolare regolarmente per le strade: è l’Apartheid!

Più che mai sono i musicisti a subire le maggiori restrizioni per il loro mestiere. Infatti, durante un concerto, Dollar Brand viene portato via in manette e umiliato dall’infame gesto della minaccia di una pistola alla tempia; a Johannesburg viene più volte picchiato dalla polizia. Nel 1962 decide allora di partire per l’Europa; è la riscossa per una nuova, più umana esistenza. L’anno dopo infatti egli s’impone sulla scena mondiale, grazie all’attenzione che a lui dedicherà, niente meno che, Duke Ellington, in tournée proprio nella stessa città in cui si esibiva Brand, Zurigo.

In generale, il suo modo di approcciare al pianoforte è, per molti versi, originale; basti pensare all’uso del pedale del legato, che viene spesso tenuto abbassato molto a lungo, in modo che sia tutto lo strumento a risuonare, come un vero, primitivo, idiofono. Il bagaglio culturale del musicista africano è assai vasto se pensiamo che egli spazia dal boogie-woogie allo stride, agli obbligato della sinistra a volte intricatissimi dal punto di vista ritmico. Egli ne da continua dimostrazione soprattutto nei primi dischi in piano solo; ma sono le performance in collettivo che, a nostro giudizio, risultano essere ancora più pertinenti con la sua personale visione dell’Africa e della musica di quella terra.

Avendo affrontato – sia pure marginalmente- la musica di Fela Kuti in altra parte di questo lavoro ci siamo resi conto di quale sia lo spirito più genuino dei musicisti africani nei confronti di questa arte e di quanto tale approccio sia valido anche per la musica di Brand-Ibrahim (“Dollar” Brand diventerà Abdullah Ibrahim dopo essersi convertito all’Islam): non esibizione individualizzata e solipsistica, ma un continuo senso di collettività, di costante, reciproco scambio di sensazioni e stimoli.

Consideriamo due dischi che presentano molti elementi in comune fra loro e risultano perciò maggiormente significativi sotto il profilo analitico: Voice of Africa, del 1988, distribuito da CAMDEN e Mantra Mode, del 1991, inciso su ENJA. Dal primo, prendiamo in esame, intanto, il pezzo d’apertura, Black Lightning; l’organico è composto da Ibrahim al piano, Kippie Moeketsi all’alto, Basil Coetzee al tenore e al flauto, Duku Makasi al tenore, Sipho Gumede al basso e Gilbert Mathews alla batteria. L’andamento è quello di un tipico ritmo “afro”, ben scandito, lungo tutta l’esecuzione, da un obbligato di basso e piano che di seguito trascriviamo:

Il brano dura quasi 15 minuti, ma Brand non esce mai in assolo; esegue solo qualche breve interludio, peraltro mai interrompendo l’obbligato della sua mano sinistra, da vero virtuoso! Sottolineiamo ciò proprio per avvalorare la nostra tesi sul modo di concepire gli arrangiamenti da parte di questo geniale musicista; come dicevamo prima, si presenta alle nostre orecchie una continua e fluida onda sonora, che prevede sì assoli dei fiati, ma non è mai interrotta dal monotono altalenarsi dei singoli solisti. Basti osservare la seguente analisi della struttura per rendersi conto dell’originalità delle varie sequenze sonore:

INTRO
alto e tenori e poi ritmica al completo (andamento afro)
TEMA (2 volte)
tutti (9+2 batt.)
INTERLUDIO
piano suona su accordo di F7 e tenore interviene con figurazioni in terzine di quarti
SOLO TENORE (2’45”)
SOLO FLAUTO (5’25”) + background dei sax
SOLO ALTO (7’40”) + background sax
INTERLUDIO ritmica
TEMA (9’55”)
SOLO TENORE (12’03”) + background
TEMA (13’40”) alto improvvisa su tema
TEMA FINALE + CODA

Come possiamo notare, la scontata retorica dei vari strumenti che si susseguono nei soli qui è notevolmente arricchita dalla presenza di una struttura formale ben più articolata. L’effetto generale è quasi incantatorio e “psichedelico”.
Di carattere simile, ma con un tema più cantabile e un un ritmo quasi “twist” è il brano dal titolo Black and brown cherries. Facciamo subito seguire l’esposizione tematica, ad opera del tenore sulla base ritmico-armonica fornita da Ibrahim, che, in quest’occasione suona il piano Fender-Rhodes.

Come possiamo vedere viene eseguita una linea di basso ben precisa ad opera proprio del piano elettrico che, assieme all’uso delle spazzole da parte del batterista, conferisce a tutta l’esecuzione un “colore” particolarmente tenue e accattivante. Di seguito mostriamo la struttura generale del pezzo, a riconfermare il grande respiro delle varie sezioni fra loro:

INTRO (ad lib. Piano Fender, poi drums)
TEMA (Ten.) (x 3 v.)
IMPRO TEN (1’00”)
INTERLUDIO (3’35”) breve impro piano
IMPRO TEN (4’00”)
TEMA Tutti (4’30”)
IMPRO TEN
TEMA (6’21”) (Ten e contrappunto melodico del Piano Fender)

Volendo soffermarsi brevemente anche sul solismo di questi portentosi musicisti possiamo dire che il tenore di Coetzee, ad esempio, si produce in un canto sempre godibile e dal profilo melodico sempre spiccato; non vi è quasi mai una ricercatezza di intervalli azzardati e inconsueti o una scelta di particolari tensioni melodiche. In questo pezzo, poi, si ode spesso il tenore che fraseggia utilizzando addirittura triadi perfette, mischiate fra loro (ad es. le triadi maggiori di Sol e Fa) facendo risaltare più che altro la modalità misolidia presa a riferimento per questo brano.

Vorremmo concludere questa nostra dissertazione su Ibrahim con un’ altra sua composizione di carattere profondamente diverso rispetto alle precedenti; si tratta di Mantra Mode, dal cd omonimo. La penetrante bellezza di questo vero e proprio canto “religioso” (da qui il titolo) colpisce immediatamente e di seguito lo riportiamo integralmente, trascritto in versione per pianoforte, ma eseguito dalla tromba con sordina harmon (quella “alla Miles”, per intenderci) di Johnny Mekoa e dalla ritmica, rappresentata dal basso di Spencer Mbadu e dalla batteria di Monty Weber.

Il lirismo mai ricercato, ma sempre manifesto all’interno degli assoli, è una cifra di questo brano, come dicevamo in precedenza; ancora una volta è l’armonioso sviluppo dell’insieme che ci affascina e, ancora una volta a esclusivo scopo di chiarimento, ne riportiamo la tabella
INTRO (piano solo); 1’30” entrano basso e batt.
TEMA (tromba con sordina) 2’00”
SOLO TROMBA 2’30” (1 senza batt. + 1 su double feel swing)
SOLO FLAUTO (Robbie Jansen) 3’40” (1 chorus + 1 senza batt. + 1 su d.f.)
SOLO TENORE (Basil Coetzee) 5’15” (c.s.)
SOLO BARITONO (di nuovo Jansen) 6’53” (c.s.)
TEMA FINALE 8’32”

Ecco di nuovo apparire l’apollinea macrostruttura: La rigorosa simmetria che sottende a tutto il lavoro è evidente fin dall’inizio quando vediamo che la tromba fa sì solo 2 giri di assolo, ma perché l’esposizione del tema è considerata già parte integrante della sua performance. Per “double feel” – a differenza del “double time” – intendiamo un raddoppio apparente di tempo (cioè il numero e la durata delle battute rimangono inalterati, ma l’accento idiolettale dello swing riguarda non più le crome, ma le semicrome).
Illuminante il giudizio del critico Luigi Onori, a proposito della produzione di questo periodo del pianista di Città del Capo.

Il musicista “incarnazione della diaspora” che ha generato le musiche nere (dall’Africa all’America con infiniti ritorni) è riapprodato nella terra d’origine per contribuire a costruire un nuovo Sudafrica senza apartheid: ormai da alcuni anni ha spostato la sua attenzione sulle radici, producendo una musica molto meno jazzistica, ardita e sperimentale di quella degli anni Sessanta e Settanta, comunque seducente ed eufonica, semplice, immediata, spontanea, popolare*.

Su questo ideale congedo terminiamo anche noi il nostro percorso su Abdullah Ibrahim, che, con la sua attività ancora prolifica, continua a donarci musica coinvolgente ed emozionante; dal suo insegnamento prenderà le mosse anche l’autore di cui parleremo nel prossimo appuntamento, Omar Sosa.

*L. Onori, Il jazz e l’Africa, pag. 231.