Amy Winehouse – Back To Black (2006)

Certamente la decade che ha prodotto il maggior numero di Dischi da Isola Deserta resterà quella degli anni 70, ma ci sono alcuni dischi contemporanei che sono riusciti comunque a lasciare il segno. Fra questi ultimi, quello che a mio avviso è e rimarrà nel cuore di tante persone è Back to black di Amy Winehouse uscito nel 2006 che, guarda caso, trae la sua ispirazione proprio da un passato glorioso. L’obiettivo che si poneva chi ha costruito questo piccolo capolavoro moderno era la riscoperta dei suoni tipici del soul Motown anni 60, mettendo sempre al centro la voce inimitabile, ruvida e allo stesso tempo dolce, della cantante inglese. Al successo dell’album hanno contribuito diversi fattori, come ad esempio, la mano sapiente dei due produttori coinvolti nel progetto (Mark Ronson, in primis, ma anche Salaam Remi), che hanno saputo dare naturalezza a quel suono così spudoratamente vintage, evitando con abilità il rischio che il tutto naufragasse in una sorta di parodia del genere. Parimenti resta decisiva la qualità melodica della track list, piena di pezzi che non stancheranno mai, proprio come i classici che in qualche modo tentano – direi con successo – di evocare.

L’iniziale Rehab, tanto per citarne uno, è un tormentone ipnotico dal quale difficilmente ci si riesce a “salvare”, vista l’astuta capacità del suo ritmo (vero segno indelebile di quasi tutto il disco, in verità) e dei suoi fiati spettacolari di coinvolgere l’ascoltatore. L’abbiamo ballata e la balleremo ancora per molti anni. Il testo parla della mancanza di volontà della stessa Amy di uscire dalla dipendenza da alcool e droghe, nonostante i consigli di tutti i suoi amici.  Qui c’è tutta la sua spiazzante franchezza, non priva di molte delle contraddizioni del nostro tempo. Non molti avevano capito, all’epoca, che si trattava realmente di una persona sensibile che semplicemente voleva vivere a suo modo la propria vita, compresa la grande sofferenza (reale e non creata ad arte), senza compromessi. Si sospettava che la ragazza ci stesse giocando, per creare a tavolino una sorta di “personaggio a fini di lucro”, ma purtroppo il giorno che ci ha lasciati nel luglio del 2011 – a soli 27 anni – molti si sono dovuti ricredere. E così l’episodio di “Back in black” che inevitabilmente finisce per rappresentarla al meglio non è quello sopra citato, bensì quella che considero la ballata più dolce e malinconica del secolo attuale: Love is a losing game (già ripresa da George Michael durante il tour con l’orchestra e più di recente da Sam Smith). Pochi altri brani sanno emozionarmi, sempre e con la medesima intensità, ogni volta che li ascolto. Il resto del disco, poi, è tutto molto bello trattando diversi temi tutti personali, dalle liti col fidanzato (Me and Mr. Jones) alla sua gelosia verso di lui, dopo essere stata mollata (Back to black). In poche parole, ciò che la Winehouse ci ha lasciato sono una voce unica, un cuore fragile e incompreso, ma soprattutto una manciata di canzoni “nere” che ormai fanno già parte della storia della musica pop.