AAVV – Nigeria 70

copertina di Nigeria 70

Cominciamo con una brutta notizia: la casa discografica londinese Strut ha chiuso i battenti nell’estate del 2003, dopo averci regalato, in quattro anni di attività, alcune tra le migliori riedizioni di afrofunk dei seventies mai pubblicate su compact disc. Quindi il consiglio che vi dò è uno solo: se il vecchio e duro funk di formazioni come i Parliament, Bootsy Collins o Sly & the Family Stone vi faceva venire i brividi, se cercate qualcosa di ancora più underground, di più ruvido, di più cattivo e devastante, non perdete tempo: accattatevi, nuovi o usati, tutti i dischi della Strut che riuscite a trovare, in particolare quelli della collana Afrostrut, prima che spariscano definitivamente.

Strut Record

Acquistare i dischi della Strut è uno dei consigli migliori che posso darvi. Ma anche se non intendete farlo, almeno date un’occhiata al loro catalogo, dove troverete un sacco di roba che ha a che fare con il funky suonato nei circuiti underground durante gli anni 60 e 70. Alcuni dischi sono riedizioni, altri sono compilation, altri ancora sono vere e proprie prime uscite di materiale che, senza la Strut, non sarebbe mai venuto alla luce. Frugate in modo particolare nelle scalette dei brani delle compilation tematiche, soffermandovi sui nomi strampalati di fugaci band che suonavano musica a cavallo tra il punk e la disco music, o di oscuri gruppi funk che intrattenevano pochi avventori in anonimi club di Rio de Janeiro, e tante altre amenità del genere, di cui la Strut offre sia versioni originali che remixed.

Nel campo dell’Afrobeat, o Afrofunk che dir si voglia, la produzione Strut è davvero notevole. Tra le compilation troviamo, oltre a Nigeria 70, i due volumi di Club Africa, dei quali il primo è stato anche l’album con cui la Strut ha inaugurato la sua attività, nel giugno del ’99. Accanto ad esse il catalogo contiene album di Orlando Julius, Tony Allen, Blo, Antibalas, Oneness of Juju, Peter King, Segun Bucknor, Lafayette Afro Rock Band. Naturalmente tutto il catalogo è disponibile sia in CD che in vinile.

Ma c’è di più. Tutti i dischi della Strut sono curati fin nei minimi dettagli, dalle copertine, alle incisioni, ai libretti, pieni di informazioni e fotografie rare. Produzioni che trasudano passione da ogni particolare. Non so davvero perché la Strut abbia chiuso, ma sono certo che mi dispiace, ed è per questo che cercherò di proporvi via via le recensioni dei loro dischi come se l’etichetta fosse ancora attiva.

Afrobeat

Torniamo a noi, e cerchiamo di capire in quale recipiente siamo caduti. Durante la seconda metà degli anni ’60 arrivarono alle orecchie dei nigeriani il funky di James Brown e il jazz di John Coltrane. L’unione con l’highlife, la musica dance di origine ghaniana trapiantata in Nigeria, e i ritmi tradizionali Youruba fu molto fertile, e da essa nacque l’Afrobeat. Il termine fu coniato da Fela Kuti, il quale se ne assunse anche la paternità, che avrebbe però dovuto condividere almeno con Orlando Julius, un altro grande band-leader che già negli anni ’60 suonava la sua miscela di funk e ritmi tradizionali.

La Wikipedia (www.wikipedia.org), l’enciclopedia free in rete in cui l’utente è chiamato anche a scrivere la sua, definisce l’Afrobeat “una combinazione di ritmi funk americani, percussioni e stili vocali africani”. Sostiene inoltre che le caratteristiche comuni dell’afrobeat sono:

è suonato da band estese, formate anche da decine di elementi
è un genere che trasmette una irresistibile energia attraverso il ritmo
è caratterizzato dalla continua ripetizione di figure e pattern melodico/ritmici
è basato sull’improvvisazione (mutuata dal jazz)
combina in sé più generi musicali
A partire da Fela Kuti e Orlando Julius, ma soprattutto a partire dalla fine della guerra in Biafra, nel 1970, l’Afrobeat esplose in Nigeria e anche oltre, con centinaia di band che riempirono dai grandi club fino ai garage più angusti e che, nella maggior parte dei casi, nonostante l’industria discografica nigeriana assomigliasse oramai ad una vera e propria macchina bellica, registrarono un solo LP, un solo single o magari semplicemente un nastro rimasto poi chiuso in qualche baule.

Revival

Il mondo si accorse dell’esistenza di Fela, poi più nulla. Passarono gli anni ottanta e anche i novanta. Poco prima dell’inizio del nuovo secolo, nel 1997, Fela Kuti morì di AIDS. Accadde allora che una grande casa discografica mondiale, per qualche motivo che non credo sia il lancio in grande stile di suo figlio Femi, decise di rimasterizzare e ripubblicare la maggior parte dei dischi di Fela Kuti: oltre 20 CD, ciascuno dei quali contenente 2 LP originali di solido, martellante e incazzato groove tra i più scuri e potenti mai sentiti. Ed ecco prodursi una sinergia inaspettata, un’altra unione che si rivelerà più fertile del previsto.

La musica dance è in mano ai DJ, one men band a cui bastano un computer, un mixer, un microfono e una libreria di suoni campionati per produrre musica. Generi come la techno, l’house, il drum’n bass, il dub e il trip hop hanno sgombrato il campo della dance music dal concetto di canzone, sostituendolo con la ricerca di atmosfere, di ambienti sonori. Andando via via perduti i riferimenti classici quali le melodie, le strofe e i temi, la struttura intorno alla quale si aggrega la musica è il groove, composto da elementi quali le linee ritmiche di basso e batteria, la ripetizione ossessiva di figure sonore.e gli effetti elettronici.

Il terreno è pronto ad accoglierlo: l’Afrobeat degli anni ’70 sembra più attuale oggi che allora. Preceduto da artisti come Moby, Groove Armada e Roots, dalle discoteche ai club underground di Londra e New York esplose il curioso revival di un genere musicale nato trent’anni prima ai confini del mondo di oggi come di allora: un genere che chiameranno appropriatamente Afrofunk. La sua forza sta nel suo calore, fatto di suoni un po’ distorti, di voci non perfettamente limpide, di ritmi ossessivi che si dispiegano su un beat inconfondibile attraverso continue microvariazioni di atmosfera e break improvvisi. Un calore che si oppone alla frededezza e alla perfezione degli effetti elettronici e dei ritmi sintetici. Un tepore pieno di fascino, lo stesso che i DJ provano a riprodurre – a dir la verità senza riuscirci – inserendo nei loro brani i finti schiocchi e i fruscii che producevano i vecchi e neri dischi in vinile.

Nigeria 70

Nigeria 70 è forse il progetto a più ampio respiro di tutto il catalogo Strut, come è dimostrato anche dal sottotitolo un pò ambizioso: “la storia definitiva del funky a Lagos nel 1970”. Essendo ad oggi una delle migliori produzioni nel suo genere, questo disco è già quasi introvabile, anche presso i siti e i negozi per collezionisti.

Nella versione su CD il cofanetto in cartone è confezionato come un mini LP multiplo. Contiene tre CD e un libretto scritto piccolissimo e pieno di fotografie. Il libretto inizia raccontando la storia della musica nigeriana, dalle tradizioni all’Highlife, al Juju, al Fuji, all’Afrobeat, fino all’arrivo delle case discografiche internazionali. La seconda parte del libretto descrive i brani in modo dettagliatissimo, riportando, se disponibili, informazioni quali la casa discografica, il codice, l’anno di uscita, la lista dei musicisti, la storia e la descrizione del gruppo, del brano e del contesto. Cosa volete di più? Non credo troverete da altre parti informazioni su musicisti come i Monomono di Joni Haastrup, o come Wiliam Onyeabor, il quale studiò per molti anni cinematografia in Russia prima di formare il proprio gruppo di Afrobeat.

In fondo al libretto apprendiamo che Nigeria 70 è il risultato di un anno di lavoro condotto da un team di ricerca, finanziato dalla Strut e formato da Quinton Scott, Kayode Samuel, Sue Bowerman, Laolu Akins e John Armstrong. Il loro lavoro si percepisce chiaramente, a cominciare dal rispetto con cui viene trattato ciascun artista, che si traduce nella cura con cui viene presentato ciascun brano. Il suono non è sempre perfetto, ma è stato curato al meglio, nonostante alcune delle registrazioni non provengano neanche dai master originali, ma direttamente da copie su vinile.

I primi due CD contengono musica, il terzo contiene l’audio di un documentario realizzato da Sue Bowerman sulla musica nigeriana, che credo non riusciremo mai a vedere, quindi accontentiamoci almeno di ascoltarlo. La scaletta dei brani dei primi due CD è quella che segue.

CD 1:

Koola Lobitos – Ololufe Mi
Monomono – Tire Loma da Nigbehin
Blo – Chant to Mother Earth
Fela Ramsone Kuti & the Africa 70 – Jeun Ko Ku (Chop ‘N’ Quench)
Tunji Oyelana & the Benders – Ifa
Bala Miller & The Great Music Pirameeds of Afrika – Ikon Allah
Segun Bucknor & His Revolution – La La La
Peter King – Shango
Tony Allen & His Afro Messengers – No Discrimination
Sir Victor Uwaifo & His Melody Maestroes – Akayan Ekassa
Wiliam Onyeabor – Better Change your Mind
Bongos Ikwe – Woman made the Devil

CD 2:

Orlando Julius & the Afro Sounders – Alo Mi Alo (Part 1 & 2)
Ofo the Black Company – Allah Wakbarr
Sahara All Stars Band Jos – Enjoy Yourself
The Funkees – Dancing Time
Afro Cult Foundation – The Quest
Joni Haastrup – Greetings
Gasper Lawal – Kita Kita
Lijadu Sisters – Orere Elejigbo
Fela Anikulapo Kuti & the Africa 70 with Sandra Akanke Isidore – Upside Down
Shina Wiliams & His African Percussionists – Agboju Logun
Sunny Ade & His African Beats – Ja Fun Mi (Istrumental)

E’ difficile decidere se questo elenco di brani possa davvero definirsi completo, ma nessuno può dire che la rappresentazione dell’universo afrobeat non sia realmente ampia. Naturalmente non si poteva non cominciare da Fela Kuti: il primo è un brano del 1964 suonato dalla sua prima band, i Koola Lobitos, un vero e proprio blues in cui si intuiscono i semi della sua futura evoluzione musicale. Passando per un brano del ’71 tratto da Open & close si arriva fino a Upside Down, un brano del ’76 cantato assieme a Sandra Isidore, un’attivista del Black Power conosciuta da Fela durante il suo lungo soggiorno negli States. Infine si può ascoltare No Discrimination di Tony Allen, il batterista di Fela e suo compagno di viaggio fino al 1978, quando decise di intraprendere la carriera da solista.

Joni Haastrup, cantante e percussionista che aveva suonato sia con il re dell’Highlife Victor Olaliya che con gli Airforce II di Ginger Baker, assieme a Graham Bond e Steve Winwood, compare con due brani: uno a suo nome e uno con il suo gruppo, i Monomono. Dei Blo, anch’essi provenienti da esperienze con gli Airforce II di Ginger Baker, il cui batterista è uno del gruppo di ricerca di Nigeria 70, compare un brano del loro primo disco, Chapter One. Tunji Oyelana, che oggi vive a Londra e compone ancora musica, era più conosciuto come attore che come musicista. Bala Miller viene dal nord della Nigeria, e fu trombettista assieme a Victor Olaliya e, addirittura, con Bobby Benson, uno dei primi eroi dell’Highlife nigeriano. Segun Bucknor e Peter King hanno entrambi studiato fuori dalla Nigeria, il primo a New York e il secondo a Londra, prima di tornare a Lagos per suonare il loro strepitoso Afrobeat fortemente venato di jazz. Victor Uwaifo viene dallo stato di Edo ed appartiene all’etnia Bini, mentre Bongos Ikwe è un ingegnere civile che si è dato alla musica.

Orlando Julius è il secondo pilastro dell’Afrobeat dopo Fela. Anch’egli iniziò con l’Highlife, e più avanti, avendo vissuto in California, suonò addirittura con Isaac Hayes, i Crusaders e Hugh Masakela. Ofo The Black Company era un gruppo di Afrorock che pubblicò con la Decca. I Sahara All Stars vengono dal nord, dalla terra dell’etnia Housa. The Funkees inziarono come cover band, mentre gli Afro Cult Foundation erano noti per la colonna sonora di un film a coproduzione afro-brasiliana. Gasper Lawal, percussionista e cantante, era residente a Londra, dove suonò anche con Jimi Hendrix e con i Funkadelic. Le sorelle Kehinde e Taiwo Lijadu furono tra le pochissime donne ad avere successo nel mondo dell’Afrobeat degli anni ’70. Infine King Sunny Ade, il re del Juju, è presente con una versione dub esclusivamente strumentale dell’hit Ja Fun Mi, una versione registrata da Sunny Ade subito dopo il suo lancio sul mercato internazionale tentato dalla Island nei primi anni ’80 con Juju Music.

Una volta inserito uno dei CD nel lettore, ciò che realmente colpisce è l’atmosfera che ogni brano è in grado di creare. Questa musica esercita su di noi la sua misteriosa attrazione perché è viva, pulsa di genuina passione e di autentica sensualità, possiede quell’entusiasmo anarchico, quella voglia di vivere esuberante ed irragionevole di cui il rock e la black music delle origini erano ricche, ma che oggi hanno un pò smarrito.E’ forse anche questa la ragione per cui oggi, a distanza di tanti anni da quando è stata suonata, ci ritroviamo ad ascoltarla con entusiasmo e tenerezza.