Afterhours ” Folfiri o Folfox tour “, Genova

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Perché il GoaBoa è come un integratore nutriente, una selezione di quello che d’inverno non arriva in città. È un festival sano, autentico, credibile e senza luoghi comuni.

Tornare al Goaboa (almeno per me) è un po’ come tornare a casa. Infatti, proprio ai confini dello Psycho Club ho mosso i miei primi passi come recensore. I primi live da ‘critico’, parola che di per sé mi ha sempre indignato e spaventato, furono proprio all’ombra della pressa che ancora oggi ricorda a Genova Campi la sua anima operaia.
Oggi, 8 luglio 2016, tornare dopo un breve periodo di latitanza, è stato un po’ come ritrovarsi in un ambiente naturale in cui ho vissuto quel mondo che porto tatuato sulla pelle.

Il Festival, ideato Totò Miggiano, quest’anno in collaborazione con l’agenzia di comunicazione Fleish Agency, torna con la sua diciottesima edizione, e lo fa con una gustosa anteprima nazionale la prima tappa del tour legato a Folfiri o Folfox, in cui Manuel Agnelli e Xavier Iriondo si accingono a raccontare ai fan e ai curiosi le nuove creature di un disco tutt’altro che facile.

Ma andiamo in ordine, perché ad aprire la serata sono i giovanissimi Katiusha, band genuense dedita ad un suono in grado di avvicinare spigoli Marlene Kuntz ai colpi diretti del punk-new wave. Il quartetto si presenza (all’ahimè sparuto pubblico di inizio serata) con un’enorme dose di entusiasmo ed energia, in grado di calmierare l’evidente e comprensibile emozione da palco. La batteria di Davide Sossi a tratti perfettibile, dona assieme al basso di Tony Randello un pattern sonoro in cui la voce di Gyada si appoggia attraverso una modulazione che appare più convincente e trainante sui graffi timbrici. Infatti, è proprio sui pezzi tirati che il gruppo offre il meglio di sé, come appare durante l’impostazione sonora di Eternit(à) e Nuvole automatiche , brani in grado di palesare un ottimo songwrinting, pronto a virare con naturalezza su di un punk a quattro accordi.

Attorno alle 21, invece, è il momento (atteso) degli Od Fulmine, una delle più interessanti band underground emerse dal mondo Greenfog-Prisoner Records.
Sin dal primo ascolto del loro debutto mi ero ripromesso di vivere quanto prima le onde sonore da sotto un palco. Così, armato di aspettative e curiosità, vengo introdotto nel loro visione poetica dalla chitarra di Fabrizio Gelli, pronto ad sviluppare le ridondanze accoglienti di un nodo sonoro che supera ogni aspettativa in sede live.

Tecnica, precisione e tenacia si presentano come i vertici di un magico triangolo da cui fuoriescono le migliori impronte dell’opera prima ed una corposa anteprima di Lingua nera, seconda fatica artistica, questa volta posta sotto l’egida de La Tempesta.
Così, tra brani cult come 40 giorni e Ma ah sorrette da un attento pubblico preso dalle emozioni della straordinarietà di 5 cose, escono dal cilindro alcune anteprime del disco in uscita settembre. Infatti, il fulcro attentivo si sofferma prima su di un ‘boom’sound rock’n’ blues, per poi virare e rinchiudersi sulle memorie di “una verità”, in cui il sentore Tarm viene confermato dal futuro featuring che Davide Toffolo ha concesso alla band ponentina.

Il live convince e offre (senza troppi dubbi) emozioni e note per chi ha conosciuto la band su disco e per chi, curioso, si affaccia a nuovi orizzonti cantuatorali legati ad una felicissima realtà musicale che ha il dovere di sconfiggere ogni stereotipo legato al ‘nemo profeta in patria’, per poi volgere a scardinare il mondo underground… perché questo talentuoso quintetto ha notevoli potenzialità, proprio come dimostra l’alchimia perfetta emersa in sede live; un amalgama ideale, in cui la straordinaria vocalità di Mattia Cominotto finisce per dare risalto a controcanti funzionali e alle tecniche espositive dell’ipnotica bassline.

Lasciati gli Od fulmine al loro backstage ecco gli headliner della serata. L’attesa composta si fa fervente nell’ indugio di rivedere una delle migliori band alternative del nostro patrimonio artistico. A nessuno importa delle polemiche xfactoriane e a nessuno (o quasi) importa vivere il live attraverso invasivi schermi telefonici. Guardandomi attorno, infatti, mi rendo conto che sono pochissimi gli smarthphone in azione… e permettemi di esserne felicemente sorpreso. Gli astanti sembrano essere li per godere dello spettacolo e non per condividere ‘socialmente’ la loro presenza. Si vuole vivere di quella musica che scaturisce da un palco volutamente scarnificato da inutili orpelli, tanto è vero che Manuel Agnelli dopo poche tracce richiede ai tecnici di limitare il fumo sul palco perché, come lui stesso dice al microfono: “Non ce ne frega un cazzo”.

Il mondo degli Afterhours inizia tra la malinconia di L’odore della giacca di mio padre e le emozioni più easy di Non voglio ritrovare il tuo nome per poi passare alle “piccole iene” raccontate dall’intensità di Agnelli ed un ispiratissimo Xabier Iriondo, reale anima sonora della band. Infatti il polistrumentista milanese giocando con lo slide su di una 12 corde, riesce a ridefinire il suo animo libero e a tratti noise (che abbiamo più volte narrato tramite Wallece Records). Proprio dall’arrangiamento rivisto di alcuni classici si riparte attraverso le disturbanti note di Varanasi baby ed il clapping hands di La vedova bianca, atti anticipatori dell’acustica anima di una Padania immersa tra due ciminiere e un campo di neve fradicia.

Il viaggio prosegue poi con Né pani né pesci e l’attesa Male di miele, a cui si accoda un’enclave strumentale in cui salgono in cattedra il basso stoner di Roberto Dell’Era e l’animosità creativa di Iriondo, pronto a riversarsi sulle venature noise di Costruire per distruggere. Se poi con Se io fossi il giudice torniamo alle emozioni calde dell’undicesima opera, con La verità che ricordavo si torna ad un passato in cui non può certo mancare Non è per sempre, accolta con un tripudio generale.

Insomma…un live che tra sorprese estratte dal passato remoto e un ottimo bilanciamento tra ieri ed oggi ha narrato ai presenti un piccolo viaggio straordinario, costruito tra note reali e prive di compromessi, in cui storie e visioni vengono esposte da una ritrovata verve espressiva.

Gli Afterghours sono tornati!