Alberto Donatelli “Arcobaleno di profilo”, recensione

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Forse non in molti sanno che il 21 aprile 2012 ricorre la 5a giornata mondiale del Negozio di Dischi, curiosa iniziativa per la salvaguardia dei luoghi di culto che hanno visto generazioni di ragazzi muovere le dita alla ricerca della giusta copertina. Location oggi per lo più smarrite nell’oblio fagocitante e nell’aggressività ordinaria dei grandi centri commerciali, che piano piano hanno soffocato tutto quello che Nick Horby è stato capace di raccontare in Alta Fedeltà. Quei mondi genuini e smarriti, dove persino Alex DeLarge ritrovava sprazzi di umanità, oramai sono perle rare nascoste negli anfratti dei vicoli genovesi, delle colline di Bergen o in un angolo buio dietro la Giralda.

Questo fenomeno d’estinzione ha da qualche anno sensibilizzato molti autori, artisti e semplici ascoltatori, spinti da padrini d’eccezione come Ozzy, McCartney e Springsteen.
Pertanto il fatto che il poetico nuovo titolo Arcobaleno di profilo di Alberto Donatelli venga lanciato proprio il 21 aprile, non è certo una decisione lasciata al caso.

Il nuovo album arriva come di consueto libero di volare senza compromessi, in un oceano gestito interamente dal cantautore romano che, come da tradizione, arriva a definire pre-produzione, gestazione, post-produzione, distribuzione e tutto ciò che l’uscita di un disco di puro rock italiano prevede.

Tredici tracce che non cercano di certo la perfezione, ma si vogliono raccontare in maniera genuina e libera, tra stilemi tipici del rock nostrano ed una semplicità narrativa che colpisce al cuore di chi ama questo genere musicale. Il platter si accompagna alla usuale cura di dettagli, con il suo booklet rigorosamente raccontato dai testi che portano con sé l’orwelliana verità come atto rivoluzionario, affiancati da una photo session in bianco e nero, a dire il vero troppo legata ad un mondo anni ’90 che ormai non c’è più.

Ad aprire l’opera quarta di Alberto è un gentile ingresso di pochi istanti in cui l’autore mescola sampler ad un riff rock d’impatto che si sovrappone ad un uso scarno del drum set, capace di dialogare sullo stretto ad intuizioni hard & heavy. L’anticipo sonoro precede la dogmatica Dire la verità, con il suo realismo sognante che, attraverso una sorta di esame di coscienza, cerca di ragionare sulla semplicità e sulla felicità che cerchiamo altrove quando già la possediamo senza accorgercene. La traccia, che forse ha il demerito di diluirsi in maniera eccessiva sul chorus, suona bene, diretta e incisiva, tra voci filtrate e controcanti. Innegabile appare però sin dal primo ascolto un parallelismo con le stelle del mainstream italiano, da intendersi però come fonte di ispirazione e non certo come tentativo inutile di clonazione, che di certo non appartiene alle corde del cantautore. Se poi con Siccome sei si raccoglie un buon deja ecù, di miglior caratura appare Quello che mi pare, in cui la soffusa linea vocale del frontman definisce nelle prime due strofe un’arte preparatoria al coro dalla contenuta rabbia, che subito si addolcisce immediatamente nella appassionata Claudia.

Con la Pioggia di odio, in cui l’inciso appare uno dei migliori passaggi del disco, si arriva a Ti hanno detto, introdotta dall’iperrealismo rumorista e da un andamento blues recitativo ed ironico che stempera il pathos di Sangue, traccia dedicata al dolore e alla crudeltà dello schiavismo multinazionale. Brano ben definito da una partitura che però, come in altre occasioni, non riesce a definire al meglio una sezione ritmica, non sempre in grado lasciare il proprio segno.

A chiudere il disco sono poi le rime di E tutto qui, i cui piacevoli e armonici intarsi sonori si fermano su di un altro potenziale singolo 8 stagioni…che però in realtà rappresenta una reprise di qualche anno addietro…rivista e rivisitata per un disco rock, che suona rock esattamente come fan di Vasco e Ligabue sanno ascoltare.