Angus Mc Og “Arnaut”, recensione

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L’apparenza non inganna! Un elegante ed opaco digipack a doppia vela, un magnifico booklet-poster su cui capeggia il nero volto oscuro dell’ignoto. Un nero abisso nascosto al di sotto del nostro ego, qui raccontato dall’art work di Marino Neri e Luca Lattuga, attraverso una dicotomia cromatica dai tratti decisi e incisivi.

Si chiamano Angus Mc Og, monicker interessante dietro il quale si celano Antonio Tavoni , Daniele Rossi e Lucio Pedrazzi, line up (si spera) definitiva di un combo pronto a ripartire sui binari indie, a poca distanza dal debut album che potrete trovare in free download tra le pieghe dell’official URL (www.angusmcog.it).

La nuova opera (Arnaut) parte da Modena, ma grazie al suo sapore focale riesce con naturalezza a mescolare indie, folk e alternatività d’oltreoceano, suonando in maniera perfetta e tutt’altro che nostrana, complice l’orizzonte visivo e sensoriale che il trio riesce a metabolizzare in brani ottimali come l’iniziatica Siddharta . Quest’ultima, considerabile un sorta di manifesto sonoro, apre ad un’armonia indie offerta da una chitarra semplicemente acustica, proponendosi come base ponderata per una traccia assolutamente convincente, non solo per la oculata fase di post produzione, ma anche per un arrangiamento genuino e lineare, in cui i violini entrano a coronamento di una regolazione generica dei volumi.

La linea vocale, pur essendo perfettibile nella sua esposizione, dona il meglio di sé in brani come Chaos is Busy e la breve The morning tale in cui la linea di cantato si avvicina a stilemi Old Cane.

Se poi Il viaggio spensierato di Fisher King (on the 7.40 train) ci offre un andamento on the road, con Wasted la band arriva a sorprendere. Infatti la track, pur non essendo tra le migliori performance del full lenght, riesce a rapire l’ascoltatore attraverso il suono pacato e nuvolare di uno spartito che ospita al suo interno enclave sonore piacevolmente vicine al muro di Waters, grazie ad una verve recitativa interessante e ad un drum set dalla nascosta angoscia.

Annoverabili tra i migliori episodi possiamo infine citare la beatlesiana Beyond Ancona Harbour e il banjo d’oltreoceano di Jonah, il cui orizzonte cita indirettamente Simon e Garfunkel, portati all’estremità post rock con The fire sermon, atto anticipatori rispetto ad una chiusura narrativa definita al meglio da The coal song

Un progetto dunque cupo e meditativo in cui ritroviamo, non solo accenni al mondo artistico di Buckey e Nick Drake, ma anche e soprattutto sentori Sufjan Steven e Andrew Bird.