Atollo 13 “Atollo 13” recensione

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Curioso.

Ecco un aggettivo che può rappresentare appieno questo Atollo 13, omonima opera prima di uno stravagante ed emergente quartetto tarantino.
Curioso… più che altro per la strutturazione fondante che Francesco Cerra, Roberto Antonacci, Francesco Baruffa e Francesco Quarto, nati dalle ceneri dei Little pink bags, hanno voluto dare alla loro araba fenice. Un compendio stilistico che pone sul medesimo piano la musica Surf con il surrealismo post demenziale che tanto sarebbe piaciuto agli inizi degli anni ’80.

La musica raccontata dagli Apollo 13 altro non è che una sorta di Surf proto-demenziale, animato da strumenti curiosi ed anomali, al servizio completo delle follie espressive di questo disco autoprodotto all’ombra della follia più spensierata. Il full lenght, corredato da un ottimo booklet ad apertura, sembra celare il proprio intento nella squilibrio (divertito) del logo creato da Roberto Bucchioni, bravo con i suoi tratti vintage a racchiudere l’impostazione artistica della band.

Così, fedeli alla filosofia della prima ondata surf, i quattro musicisti hanno deciso di estremizzare quella spensieratezza della California anni ’50, portandola al di fuori della classic location, azzardando viaggi planetari e amori intergalattici.

In linea con lo stile da cui proviene, il disco si anima di molte tracce strumentali che arrivano a rivisitare una sorta di riuscita deformazione di blues, jazz e cripto-rockabilly, giungendo a mostrare tremoli e riverberi in Dick Dale style.

Proprio l’iniziatica Vermut sembra volerci introdurre nel mondo valvolare del surf, attraverso il riuscito dialogo tra chitarra e drum set, i cui diversificati livelli di lettura riescono ad ammaliare l’ascoltatore tra loop e curiosi sampler, sino a portare il suono proto-twang verso il rock’n’roll di Con i tacchi e la bizzarra titletrack, storia di un amore impossibile. Se poi poco riuscita appare Porno surfer , la giusta via viene ripresa con i cori Beach boys di Tribute band e Toro Insuperabile, il cui pattern jazzato ci porta tra le onde di Tarifa, pronte a trascinarci verso la danzante Blind Driver , una tra le migliori tracce del debut, ulteriore episodio guida verso una metaforica discesa nel più genuino surf rock.
A chiudere il cerchio ci pensa infine la coverizzazione di California Sun, ennesima rivisitazione di un brano storico, qui ottimamente interpretato con i suoi palm muting e le sue veloci plettrate… semplici aggiuntive offerte d’entrata nell’anticamera di un genere ancora troppo poco considerato.