Battles – Mirrored recensione.

Battles - Mirrored. Cd cover

Il rapporto tra computer ed il mondo della musica ha vissuto e vive di fasi contrastanti. L’avvento dell’epopea teutonica degli anni settanta ha incanalato l’utilizzo dell’elettronica nei binari della musica d’autore annoverando interpreti geniali e controversi ed arrivando al successo internazionale grazie soprattutto a lavori del secondo periodo dei Kraftwerk. Dagli anni ottanta in poi però l’utilizzo di software, pc e arnesi digitali è spesso coinciso con incresciose produzioni pseudo-danzerecce di bassa qualità, sfociate poi in fenomeni principalmente commerciali e lontani da un vero concetto di “musica” in quanto tale. Chi invece diligentemente sperimentava in studio cercando di equilibrare i freddi suoni elettronici al calore degli strumenti canonici è stato messo da parte ed offuscato dai giudizi superficiali che tendevano a fare di tutta l’erba un fascio.

Fortunatamente i tempi cambiano e con loro aumentano per molti artisti le possibilità di trovare vetrine alternative, delle nicchie con tante chance di uscire dalla propria dimensione ed espandersi pian piano nella cultura musicale mondiale. La corrente underground statunitense guidata da gruppi come Slint, Tomahawk o Don Caballero è stata fondamentale per garantire alla contaminazione tra rock ed elettronica un palcoscenico importante, rosicchiando con costanza certi spazi “off-broadway” e raggiungere le luci di una piccola ribalta meritata, guadagnata sul campo grazie a risultati ottenuti con delle sonorità stimolanti.

Da questo filone arrivano i Battles, un gruppo che nasce proprio dall’unione di menti con esperienze già importanti (il batterista John Stanier era nei Tomahawk, il chitarrista e bassista Dave Konopka viene dai Lynx, il chitarrista e tastierista Ian Williams dai Don Caballero, mentre Tyondai Williams, anche lui a chitarra e tastiere, ha già un ricco passato come solista di avanguardia). “Mirrored” è il loro album d’esordio ma era stato preceduto da diversi EP che avevano messo ben in chiaro la direzione intrapresa: niente fronzoli o scorciatoie bensì un deciso concentrato di idee progressive da armonizzare con strumenti e computer. Ma è nel loro primo lavoro di lunga durata che il tutto prende corpo e supera agevolmente il rischio di essere monotoni e ripetitivi. Come? Può sorprendere dirlo in un album di musica fondamentalmente elettronica (anche se è molto riduttivo definirlo così) ma l’elemento vincente è la maestria dei musicisti e dei loro grandi arrangiamenti. Ma andiamo per gradi.

L’album si apre con “Race:In”, che vorrebbe essere un’introduzione ma in realtà è un pezzo vero e proprio di quasi cinque minuti, costruito su battute veloci e minimaliste alle quali si vanno a sovrastare delicate linee di basso e chitarra, alternate a note solitarie di tastiere elettroniche e soprattutto ad effetti vocali la cui magia è quella di essere tra il melodico ed il disincantato. Nel frattempo i riff di chitarra sono consistenti ed entrano a far parte della trama del pezzo senza quasi che ci si renda conto. E si arriva incantati alla ben più lunga “Atlas” che dopo una ricca partenza dal sound spazial-futuristico arricchito da effetti distorti, si apre ad un quasi intimista show chitarristico che permea la parte centrale del pezzo. Non aspettatevi virtuosismi però, si tratta di riff che hanno come scopo quello di entrare nel clima della traccia fino ad unirsi ai ritmi di apertura nel finale in crescendo . Questa, come “Tonto” sono due piccole suite che rimandano un pò ai dischi del progressive classico nella loro struttura fatta di cambi di ritmo capaci poi di rincontrarsi alla fine. “Tonto” rispetto ad “Atlas” ha un’introduzione persino più chiusa su suoni che sembrano voler essere distanti, che più che colpire tendono ad ipnotizzare e catturare, percorrendo un sentiero che giunge ad un cuore che in questo caso ha influenze rock con rimandi di musica orientale, un perfetto mix tra chitarre ed effetti simil-sitar che si fondono e poi si spengono lentamente nel finale morbido e d’atmosfera. Il lato intimista lascia spazio allo space-rock in “Rainbow”, dove sono le chitarre a farla da padrone, seppur sempre in chiave molto sperimentale e mai aggressiva, con cambi di ritmo a metà pezzo, passando dal progressive al funk sporco tastieristico, con la batteria che picchia un pò più del solito e con gli effetti vocali che questa volta fanno solo capolino ma hanno lo scopo di trainare il brano in un limbo di rumori di fondo che in realtà è solo il preludio ad un finale esplosivo e caotico caratterizzato dalla roboante chitarra. L’ultimo tra i pezzi di oltre sette minuti è il complesso “Tij” che nasce da una monotono ed ansioso battito elettronico e poi si trasforma in un condensato del genere di cui i Battles sono interpreti, fatto del continuo alternarsi di discrete melodie chitarristiche, di elementi di rock classico e di insistenti parti tastieristiche, poi ancora rumori e giri di basso, il tutto fuso in maniera equlibrata all’elettronica di fondo. Ad alternarsi alle varie composizioni di lunga durata ci sono piccole perle di tre minuti o meno, come la frenetica “Diamondd”, costituita da rumori folli e da un grande riff che sostiene dall’inizio alla fine le veloci battute, la riflessiva “Leyendecker” che sfoggia le più armoniose e suadenti parti vocali del disco adagiandole su ritmi possenti ma tranquilli, e infine la cervellotica “Snare Hangar”, costruita su una batteria a ritmo frammentato che supporta elementi musicali che sembrano partire e ricominciare senza mai arrivare da nessuna parte. Il disco si chiude con “Race:Out”, un outro di classe fatta di suono digitale in partenza spezzato dall’annuncio a suon di timida batteria per un finale pirotecnico nel suo minimalismo d’autore, tra tastiere e chitarre che si inseguono e sembrano non volersi raggiungere mai.

La bellezza di questo disco è quella di non risultare mai nè complicato, nè pretenzioso, pur vivendo la sua esistenza tra suoni non comuni ed orecchiabili. Ma una concentrazione su questo collage musicale di grande fascino renderà senza dubbio un piacere l’ascolto, anche ripetuto, di questo album capace di dare una nuova dimensione a quell’elettronica d’autore che in troppi avevano frettolosamente dimenticato.